Editoriale di Janiki Cingoli

Islam, tra rivolte e democrazia

Data pubblicazione: 21 settembre 2012

Le recenti esplosioni di collera verificatesi in diversi paesi musulmani, a causa di un film prodotto negli Stati Uniti che ridicolizzava Maometto, aprono degli interrogativi ineludibili. Già negli anni scorsi vi era stato l’episodio delle vignette danesi, ed ora la pubblicazione di altre vignette sul settimanale satirico francese “Charlie Hebdo”, con il rischio di nuove dimostrazioni.
Ovviamente, vi è un sentimento comune di frustrazione e di ingiustizia che agita questi dimostranti, portandoli a compiere attacchi ingiustificabili e sanguinosi, come nel caso dell’assassinio dell’Ambasciatore americano in Libia e dei suoi compagni.

Ma, almeno per quanto riguarda i paesi arabi dell’Area mediterranea, è necessario partire da un’analisi della stessa Primavera araba, e dei suoi sviluppi.
I regimi al potere precedentemente recavano, in larga parte, l’imprinting dei regimi pro-sovietici; proprietà pubblica dei mezzi di produzione, mancanza di democrazia, poteri autoritari e privi di controllo dal basso, corruzione dilagante. Questo framework generale si era mantenuto, al di là delle vernici pseudo-democratiche e dei tentativi di liberalizzazione economica con cui si era cercato di imbellettare quei regimi, anche dopo la rottura dell’alleanza con il blocco sovietico.

Comune a tutti questi paesi era stato altresì l’imposizione di uno stretto controllo sui partiti islamici, spesso repressi e perseguitati. Di fatto, per molti decenni l’evoluzione politica e lo sviluppo naturale di queste società sono rimasti bloccati. La stessa articolazione del rapporto tra religione, Stato e politica si è come cristallizzata. Con la Primavera araba, il tappo è stato tolto, e quello che si agitava sotto è venuto alla luce, e ha cominciato ad operare, senza esperienza, senza regole e guideline istituzionali. Pretendere che tutto si svolga senza strappi e contraddizioni anche aspre e drammatiche, è illusorio.

Peraltro, occorre valutare che si tratta di realtà molto diverse tra loro, e al loro interno. Per la Libia, vale probabilmente la definizione di Thomas Friedman, di “Tribù con bandiera”: sotto la scorza dei poteri ufficiali, che fortunatamente esprimono posizioni moderate e collaborative con l’Occidente, si agita un brulichio di milizie armate, che spesso fanno riferimento alla miriade di tribù locali, milizie che il Governo non prova neanche a disarmare e a mettere in riga, puntando a un loro graduale inserimento nelle forze armate e di sicurezza ufficiali. A questo si aggiunge la storica rivalità tra Tripoli e Bengasi, che è lungi dal dirsi sanata. In una situazione come questa, è perfino ovvio che finiscano per entrare in campo gruppi estremisti, spesso legati allo Jihadismo qaedista.

Diversa la situazione della Tunisia, finora considerata un modello di transizione democratica, ove il Partito islamico andato al potere, Enada, è nel mirino delle stesse dimostrazioni antioccidentali, guidate dai salafiti, che cercano di metterlo in difficoltà.

Differente altresì la situazione egiziana, ove la tradizione statuale ha una lunga tradizione, e la bilancia del potere si gioca oggi tra i militari e la Fratellanza musulmana, con un ruolo accessorio giocato dalle forze più democratiche che hanno animato la Primavera nel paese. Anche qui, i gruppi salafiti hanno dato l’assalto alla Ambasciata americana, riuscendo a scavalcare il muro e ad ammainare la bandiera, sostituendola con la loro, nera. Essi volevano, fra l’altro, mettere in discussione la supremazia della Fratellanza, come già durante le elezioni legislative, quando erano arrivati a totalizzare il 25% dei voti, contro il 50% dei Fratelli. Tant’è che il Presidente Morsi ha esitato non poco a schierare le forze dell’ordine a tutela dell’ambasciata USA, e lo ha fatto solo dopo energiche e ripetute sollecitazioni delle autorità americane ai massimi livelli. Mentre Obama ha definito l’Egitto un paese “né alleato né nemico”, lasciando sospeso il giudizio sulla base delle concrete scelte di governo che verranno compiute. Emblematico quanto segnalato da Guido Olimpio sul Corriere della Sera, secondo cui i Fratelli musulmani nei messaggi twitter in inglese facevano appello alla calma e all’autocontrollo, in quelli in arabo chiamavano alla mobilitazione e alla lotta.

Ancora due considerazioni. Gli stessi salafiti non sono un corpo unico, esprimono una tendenza religiosa che si richiama all’ortodossia originale islamica. Alcuni di essi militano dentro la stessa Fratellanza musulmana, altri sono legati all’estremisamo qaedista. Il partito salafiti egiziano ha dichiarato di voler rispettare il trattato di pace con Israele.

Quello islamico è un magma in movimento, e non è chiaro dove si dirigerà e come si solidificherà.

L’atteggiamento degli USA e dell’Europa sarà a questo riguardo determinante, insieme alla capacità di interloquire ma anche di interagire e condizionare. Va detto che l’atteggiamento di Obama, a questo riguardo, è stato inappuntabile e di grande dignità, e questo dovrebbe finire per premiarlo anche il giorno delle elezioni.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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