L’Editoriale

Da Tunisi al Cairo. L’intifada araba

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 3 febbraio 2011

Dopo la Tunisia e l’Algeria, la protesta è dilagata in tutto l’Egitto, dove milioni di cittadini sono scesi in strada nelle principali città del paese, chiedendo le dimissioni del Presidente Mubarak, e sono stati duramente repressi, con oltre 150 morti. L’esercito tuttavia ha scelto di non partecipare alla repressione, legittimando la protesta.

Il Premio Nobel ElBaradei, rientrato in Egitto per unirsi ai dimostranti, si è posto alla testa della rivolta. Il destino di Mubarak, apertamente scaricato dagli USA, appare segnato, anche se regna ancora l’incertezza sui possibili esiti del confronto in atto. Ripetute dimostrazioni si sono avute in Giordania, a Karthoum, la capitale del Sudan, e a Sana’a, nello Yemen, e qualche segnale giunge anche dalla Siria.

Vi è qualcosa di simile all’esplosione della prima intifada, nell’87. Anche allora tutto appariva bloccato, i palestinesi senza speranza, l’OLP marginalizzata, e il sollevamento popolare rimise tutto in discussione. Così come oggi, quando gli USA hanno fatto cadere la richiesta di bloccare gli insediamenti, che sono ripresi in grande stile, e il processo di pace è completamente bloccato. Ma a sollevarsi non sono i palestinesi, ma le masse arabe, e l’obbiettivo da combattere non è, almeno in prima stanza, Israele, ma i vecchi e sclerotizzati regimi al governo. E tutte le carte sul tappeto cambiano, cambia la stessa partita che si sta giocando.

Stiamo assistendo all’esaurimento dei differenti modelli di regimi postcoloniali, con il loro imprinting di stampo sovietico: sia che si tratti dei movimenti di liberazione e dei movimenti di indipendenza nazionali che si sono fatti Partito–Stato (Algeria, Tunisia); sia dei movimenti dei “Giovani ufficiali” che attraverso vari colpi di stato hanno posto fine alle precedenti monarchie instaurando repubbliche presidenziali (Libia, Egitto, Siria, Iraq etc.). In tutti questi casi, gli Stati sono stati governati dall’alto, senza controllo democratico, con una accentuata statalizzazione dei mezzi di produzione, con un abnorme sviluppo delle burocrazie e conseguente dilagare della corruzione.

I processi di modernizzazione tentati negli ultimi decenni, soprattutto nei paesi del Maghreb, hanno finito spesso per sovrapporre a questa struttura, già così rigida, l’influsso del centralismo francese di stampo napoleonico, con la creazione di un sistema di strutture pubbliche “a cascata”, spesso rigide, che si proponevano anche di assicurare un controllo pubblico contro le degenerazioni, ma spesso hanno finito per moltiplicarle.
In questo contesto, i tentativi di liberalizzazione dell’economia hanno spesso incontrato ostacoli e barriere assai gravi e talora insormontabili.  Spesso, in particolare in Egitto, l’economia privata ha finito per crescere non sostituendosi a quella pubblica, ma al suo fianco, in parallelo e spesso in simbiosi con essa.

Dal canto loro, i paesi occidentali hanno preferito basarsi sui regimi esistenti, che garantivano stabilità e controllo sociale creando un ambiente propizio al business, piuttosto che complicarsi la vita con improbabili tentativi di democratizzazione imposti dall’esterno, che solo durante la presidenza Bush furono perseguiti con esiti peraltro fallimentari.

I decenni passati hanno comunque consentito uno sviluppo economico notevole, anche se questo ha prodotto una forte acutizzazione del divario sociale, con una larga parte della popolazione confinata ai margini della sopravvivenza economica. Ma oggi, nell’attuale contesto economico internazionale, questo modello, cosi rigido e chiuso, mostra tutti i suoi limiti. L’economia da sola non basta, deve fare i conti con la società e con le sue esigenze di crescita democratica e civile.

Ciò è tanto più vero nel momento in cui il mondo è sempre più strettamente interconnesso, le notizie e gli esempi circolano in tempo reale, e la creazione di argini contro la loro diffusione risulta velleitaria e inefficace. Internet, Facebook, Twitter paiono essere stati gli strumenti attraverso cui si sono propagate le manifestazioni di questi giorni, e le idee che le hanno nutrite. Questi giovani, che pure non esitano anche ad immolarsi col fuoco, non sembrano avere a modello i martiri jihadisti, ma gli standard di libertà e di democrazia propri delle nostre società.
I movimenti islamici non paiono aver innescato le proteste, anche se, come nel caso dei Fratelli Musulmani egiziani, hanno poi deciso di aderirvi.
Tuttavia, è inutile nascondersi che la transizione sarà difficile e rischiosa.

Non è facile la scelta dei paesi europei, come dimostra il caso dell’Ambasciatore francese a Tunisi, che il giorno prima della fuga di Ben Alì inviava ancora al suo governo dispacci rassicuranti.

È evidente che la caduta di Mubarak creerà rischi profondi di destabilizzazione in tutto il Medio Oriente, in cui l’Egitto ha rappresentato fino ad oggi un argine contro le tendenze più radicali e contro i tentativi di penetrazione della crescente influenza iraniana.

D’altronde, gli stessi sviluppi della situazione in Libano, che pare oramai caduto sotto il controllo della coalizione che fa riferimento agli Hezbollah (anche per gli imperdonabili errori compiuti dagli USA nella gestione della crisi che ha portato alla caduta del Governo Hariri), non fanno che acuire le preoccupazioni e i pericoli.

Israele rischia di perdere gli ultimi riferimenti rimastigli nell’Area, dopo la crisi dei rapporti con la Turchia, e di trovarsi militarmente scoperto sul fronte meridionale, che credeva sicuro; l’Europa e gli USA, dal canto loro, si trovano a procedere su un crinale stretto, tra una difesa di uno statu quo indifendibile, e che è oramai divenuto obsoleto, e la scelta di nuove strade la cui destinazione è ancora largamente sconosciuta. La capacità di riuscire a integrare le correnti dell’Islam moderato nei processi di cambiamento rappresenta probabilmente una delle chiavi determinanti nell’esito di questa sfida.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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