L’Editoriale

Israele, quel che resta del Labour

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 20 gennaio 2011

Ora che Barak ha deciso a sorpresa di lasciare il Partito Laburista, di cui era segretario, e di fondare il nuovo Partito “centrista e sionista” Atzmaut (Indipendenza), quale è il futuro della sinistra israeliana?

Incalzato dagli altri ministri del suo partito, il leader israeliano sapeva che la prossima convenzione del Partito lo avrebbe costretto a lasciare il Governo e ad aprire la crisi, di fronte al totale stallo del processo di pace. Ma egli si identifica con il ruolo di Ministro della Difesa, e dimettersi non era certo nelle sue corde.

Inoltre, egli si è sentito abbandonato dall’amico americano: i più alti livelli USA hanno lasciato largamente filtrare irritazione e delusione, dopo che egli li aveva convinti di poter portare Netanyahu sulla via della pace, per poi lasciarli con un pugno di mosche. Chi non ricorda i suoi incontri anche non programmati con il Presidente Obama, che intanto lesinava i minuti al Premier israeliano? Ma al dunque, dopo aver proposto, con la sua collaborazione, l’ipotesi di una nuova moratoria di tre mesi degli insediamenti israeliani, in cambio di uno spropositato pacchetto di incentivi assicurato allo Stato ebraico, gli USA si sono visti dilazionare da Israele la sospirata accettazione, ed hanno infine deciso di lasciar cadere l’offerta, annunciando un nuovo e ancora sconosciuto approccio al conflitto israelo-palestinese-arabo.

Isolato nel suo Partito e a livello internazionale, Barak non ha trovato di meglio che rinsaldare l’asse con Netanyahu, cui lo lega una antica consuetudine (hanno servito insieme nella stessa unità d’élite dell’esercito, la Sayeret Matkal), una consuetudine divenuta quotidiana in questi anni di governo, rafforzata dalla comune preoccupazione per la minaccia iraniana e dalla valutazione condivisa sull’assenza di un credibile partner palestinese.
Lo hanno seguito quattro membri della Knesset, tre dei quali saranno ministri al posto dei quattro dimissionari restati nel Labour.
Sul breve periodo, la coalizione risulta rinsaldata, anche se ridotta a 66 deputati su 120, essendosi liberata, secondo Netanyahu, dalla “zavorra” dei ministri laburisti dissidenti.

Ma intanto l’isolamento internazionale di Israele continua a crescere: ai dieci Stati latino-americani, che nelle scorse settimane avevano annunciato il riconoscimento dello Stato palestinese nei confini del ’67, con capitale Gerusalemme Est, si è aggiunta in questi giorni la Russia, per bocca del suo Presidente Medvedev, in visita in Cisgiordania, che ha annunciato di ritenere ancora valido il riconoscimento della Palestina annunciato dall’URSS nell’88. Si pensa che presto seguiranno la Cina e numerosi altri Stati. Anche in Europa sono oramai numerosi i paesi che stanno elevando il rango delle rispettive rappresentanze diplomatiche palestinesi.

Nel luglio di quest’anno scadranno i due anni entro cui il Premier palestinese Fayyad si è proposto di costruire “dal basso” il nuovo Stato palestinese. Quale sarà a quel punto l’atteggiamento degli USA, ora che non sono più vincolati ad una procedura di veto automatico sulle risoluzioni considerate ostili da Israele, se il riconoscimento della Palestina venisse posta al voto dell’Assemblea o del Consiglio di Sicurezza dell’ONU?

Quanto al Labour, gli otto parlamentari rimasti hanno sulle spalle un compito assai gravoso. L’area politica centrale del paese è saldamente presidiata da Kadima, il Partito guidato dalla Livni con i suoi 27 seggi, a cui ora si aggiunge la nuova formazione di Barak.

Già nelle ultime elezioni il Labour si era ridotto a 13 parlamentari, divenendo il quarto partito del paese. Ma ora, con l’ulteriore salasso, tutto sarà ancora più difficile per la nuova leadership da eleggere. Tra i più quotati candidati alla successione, Isaac Herzog, figlio di Chaim Herzog, Presidente israeliano negli anni ’80, e Avishay Braverman, ministro dimissionario per le minoranze.

Logica vorrebbe che quel che resta del Labour si collegasse ai residui dell’altra formazione di sinistra, il Meretz, oramai ristrettosi con le ultime elezioni a tre parlamentari, formando insieme un partito di stampo socialdemocratico e favorevole alla pace. Ma questa operazione è tutt’altro che scontata, e non solo per le persistenti rivalità e per le contrastanti ambizioni, ma perché rischierebbe di collocare la nuova formazione troppo a sinistra: un imprinting esclusivamente socialdemocratico riuscirebbe difficilmente a interpretare gli umori dei nuovi ceti emergenti e le crescenti aspirazioni ambientaliste.
L’Italia sa bene quanto sia difficile la fuoriuscita, per i partiti della sinistra, dalle vecchie concezioni classiste e fondate prevalentemente sulla sola difesa dei lavoratori occupati.

In un paese come Israele, la cui crescita nel 2010 è stata del 4,5%, con una previsione per il 2011 che sfiora il 4%, è difficile farsi ascoltare ripetendo le vecchie proposte economiche, ed anche il vocabolo pace appare oggi tutto da reinventare, se non una irraggiungibile araba fenice.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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