L’Editoriale

Israele/Palestina: il gioco dell’oca di Obama

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 20 dicembre 2010

Nel gioco dell’oca, se si arriva alla casella 59 (lo scheletro), si paga pegno e si torna alla casella di partenza. È un po’ quello che sta capitando al Presidente Barack Obama, che a un anno e mezzo dal suo discorso del Cairo scopre che la richiesta di congelare tutti gli insediamenti israeliani, pregiudiziale per l’avvio del negoziato con i palestinesi, non è più prioritaria.
La diplomazia USA intende procedere con un nuovo approccio, partendo dai punti essenziali del negoziato finale: i confini, la sicurezza, i rifugiati, Gerusalemme, l’acqua. La posizione statunitense contro l’espansione degli insediamenti viene riconfermata: ma essa si affianca agli altri temi, non è più il centro della iniziativa americana.
È dubbio se questa scelta non dovesse essere già fatta fin dall’inizio, dato che concentrare tutto sugli insediamenti ha consentito a Netanyahu di rinviare il confronto sui temi centrali del negoziato. Ma una volta fatta quella scelta, probabilmente Obama doveva andare avanti e imporla, per non mettere in discussione la sua stessa credibilità in tutto il mondo arabo.
Invece, è fallito persino il suo estremo tentativo di ottenere una ulteriore proroga di tre mesi della moratoria sugli insediamenti, scaduta il 26 settembre, per evitare il collasso dei negoziati diretti tra israeliani e  palestinesi, appena riavviati: eppure, il pacchetto offerto all’alleato israeliano era davvero irresistibile: garanzia di non chiedere successive proroghe della moratoria; impegno a bloccare per un anno ogni proposta di risoluzione in sede ONU contraria agli interessi di Israele; garanzie contro il contrabbando di armi e missili; rafforzamento della capacità difensiva israeliana e aumento di tre miliardi di dollari del pacchetto di aiuti militari annuali destinato ad Israele, con la fornitura armamenti avanzati e sistemi di allarme rapido, incluso l’uso dei satelliti; e soprattutto un patto complessivo di difesa regionale, in grado di assicurare protezione contro le minacce iraniane anche dopo la nascita di uno Stato palestinese. Infine, si era aggiunta l’ulteriore offerta di venti aerei da combattimento di ultima generazione, gli F 35 stealth, i predatori invisibili, preziosi in caso di un confronto con l’Iran.
Ma le divisioni interne al suo governo non hanno permesso a Netanyahu di accettare la proposta. A questo, punto, l’Amministrazione USA ha ritirato l’offerta, pur riconfermando le linee generali delle sue posizioni sul Medio Oriente e sulla necessità ineludibile di dar vita ad uno Stato palestinese al fianco di quello israeliano.
La cosa ricorda un po’ il celebre episodio di James Baker, il Segretario di Stato di Bush padre, che di fronte al coriaceo rifiuto di Shamir di bloccare gli insediamenti, e alla sua persistente tattica dilatoria, gli disse: “Mr. Shamir, questo è il telefono della Casa Bianca, quando avrete deciso di discutere seriamente, chiamateci”. Ma poi Baker bloccò le garanzie sui prestiti per 10 miliardi di dollari, necessari per assorbire gli immigrati dalla Russia, e questo giocò un ruolo essenziale nella vittoria di Rabin alle successive elezioni.
La diplomazia USA, oggi, riparte invece con le eterne missioni di George Mitchell, riesumando i vecchi negoziati indiretti tra le parti, detti “di prossimità”, ma che ora saranno solo negoziati “paralleli”: il mediatore non riferirà le proposte dell’uno all’altra parte, ma le userà per formarsi un quadro esatto della situazione. L’Inviato speciale USA si è dato 6 settimane di tempo, per portare avanti questa indagine esplorativa, dopo di che non è ben chiaro che cosa possa succedere, se gli USA avanzeranno o no una loro proposta ponte, di sintesi.
Si potrebbe osservare che se, dopo un anno e mezzo di defatigante spoletta tra le parti, Mitchell non è stato ancora in grado di formarsi una opinione precisa delle rispettive posizioni, non si capisce bene cosa abbia fatto. Ma la realtà è che, mentre i palestinesi hanno presentato proposte articolate e definite su tutti i punti del negoziato, il leader israeliano finora ha portato avanti una tattica dilatoria, evitando di dare risposte chiare sulle questioni più controverse, quali i confini o Gerusalemme. Gli unici due punti su cui ha insistito sono quelli della sicurezza e quello della richiesta di un riconoscimento di “Israele come Stato ebraico e democratico”.
È tuttavia dubbio che l’Amministrazione Obama abbia la volontà di assumersi la responsabilità e l’onere di formulare una propria proposta, come fece Clinton alla fine dei negoziati di Camp David 2, nel 2000: la attuale situazione in Congresso, ed in particolare in Senato dove i repubblicani hanno conquistatola maggioranza, restringe i suoi spazi di manovra, e si levano sempre più alte le voci di opinion maker autorevoli, come Thomas Fiedman, che sul New York Times sostiene che gli Stati Uniti hanno problemi più gravi di Israele, a cominciare da quelli economici. E l’ostinatezza del leader israeliano non aiuta certo a superare quelle critiche. La finestra di opportunità, per il Presidente USA, è comunque ristretta: già dalla metà del 2011 egli avvierà la preparazione in vista delle nuove elezioni presidenziali.
La ritirata americana ha creato una situazione di vuoto, in cui tutti si sentono autorizzati a portare avanti la loro iniziativa: palestinesi e arabi stanno cercando di ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese, malgrado la persistente e ribadita ostilità USA (la Camera dei Rappresentanti ha votato in proposito all’unanimità una durissima risoluzione): Brasile, Argentina, Uruguay e Bolivia hanno già proceduto in questo senso, e la stessa Europa ha assunto una posizione possibilista, dichiarandosi disposta a procedere al riconoscimento “quando opportuno”.
Ciò che manca, in realtà, è quello che Shlomo Avneri, il grande politologo israeliano, chiama il “Piano B” americano, ora che il tentativo di giungere ad un accordo complessivo e definitivo pare giunto al capolinea, un piano di ricambio, basato su un accordo parziale e transitorio di vaste proporzioni, che consenta di stabilizzare la situazione e dare respiro alle forze moderate palestinesi.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

Leggi tutti gli EDITORIALI