L’Editoriale

Netanyahu superstar

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 17 ottobre 2012

La decisione di Netanyahu di convocare elezioni anticipate in Israele non ha sorpreso molti. La giustificazione ufficiale è la difficoltà di far approvare un bilancio di austerità, che si rende necessario per affrontare le conseguenze della crisi, di cui peraltro il suo paese ha sofferto meno degli altri. Ma la realtà è che egli ha voluto cogliere il momento propizio per rafforzare la sua leadership e sottrarsi agli eccessivi condizionamenti dei suoi alleati. D’altronde, non pare avere seri concorrenti.

Secondo Mark Heller, Direttore delle ricerche presso l’Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv, che ho incontrato qualche settimana fa, oramai non c’è nessuno che possa fare ombra al Premier israeliano. Non ci sono rivali credibili, non ci sono alternative politiche praticabili, l’opposizione è inesistente.

Netanyahu, in effetti, pare avere la capacità di svuotare e risucchiare i potenziali concorrenti; lo ha fatto con Barak, spingendolo ad abbandonare il Labour pur di restare Ministro della Difesa, lo ha fatto con il leader di Kadima, Mofaz, dapprima formando con lui il Governo di Unità nazionale, e poi inducendolo a rompere sulla questione dell’esenzione degli ultrareligiosi dal servizio militare. In qualche modo lo ha fatto anche con il Presidente Obama, partito lancia in resta, all’inizio del suo mandato, con la richiesta di bloccare tutti gli insediamenti israeliani, e poi costretto ad una brusca marcia indietro, sotto la fortissima pressione delle lobbies ebraiche al Congresso.

I sondaggi paiono dar ragione a queste previsioni: non è sicuro che il Partito di Barak riesca a entrare alla Knesset, mentre quello di Mofaz, Kadima, crollerebbe da 29 a 7-8 seggi.

Meir Sheetrit è tra i fondatori di Kadima, più volte ministro, nei dicasteri più prestigiosi. Il suo giudizio su Mofaz è durissimo: ha assassinato Kadima. Ora c’è il forte rischio che quel Partito vada in pezzi. Si pone un problema di leadership, e lui stesso intende porre la sua candidatura.

In realtà, l’unico che potrebbe fare ombra a Netanyahu è l’ex Premier Ehud Olmert, se tornasse alla guida di Kadima: è stato recentemente assolto dalle accuse di corruzione, e aspirerebbe a tornare in pista. Ma lo intralciano altre pendenze giudiziarie non risolte, e che incombono su di lui.

L’asse portante della campagna elettorale di Netanyahu sarà senz’altro la minaccia nucleare iraniana: Una minaccia reale, ma anche un terreno ideale per realizzare l’union sacrée del paese, e togliere spazio agli avversari. Quando c’è pericolo, la leadership non si tocca. E la questione iraniana verrà utilizzata come chiave di rapporto anche verso l’esterno, sia con l’Europa che con gli Stati Uniti.

Un elemento che colpisce è l’assoluta assenza del conflitto israelo – palestinese dal dibattito elettorale: la questione palestinese è marginalizzata, in qualche modo residuale, e non solo dentro Israele, anche nella campagna elettorale USA. Pure nel mondo arabo l’attenzione si concentra più sui problemi interni, quelli economici, sempre più stringenti, e quelli politici, determinati dall’ascesa dei diversi partiti di ispirazione islamica nei diversi paesi.

Il giudizio di Heller, su questo aspetto dei partiti islamici, è critico: in realtà, afferma, è lecito nutrire dubbi sulla opzione democratica dei Fratelli musulmani. La loro è una scelta tattica, non strategica. Ci vanno cauti, perché devono tener conto delle posizioni delle Forze Armate, e vogliono conservare gli aiuti USA. Non a caso, lo stesso problema della minoranza copta va aggravandosi. La stessa analogia che viene fatta con i partiti Democratico Cristiani è falsa, questi non cercavano di imporre un’egemonia cristiana, come i movimenti musulmani. I cristiani sono nati affermandosi contro lo Stato, mentre nei musulmani non c’è separazione con lo Stato.

Quanto ai palestinesi, il giudizio dell’analista è drastico: la gente nel mondo ne ha abbastanza del conflitto israelo-palestinese. C’è disillusione. Lo stesso Obama, se verrà rieletto, non è detto che farà molto: è stufo di tutto il Medio Oriente. L’esperto israeliano non vede vie d’uscita, almeno a breve termine. Per certi versi secondo lui lo status quo è meglio della ricerca di soluzioni non praticabili, ricerca che può creare contraccolpi destabilizzanti.

Netanyahu, osserva, potrebbe fare al massimo delle piccole concessioni. Ma Abbas non andrà al tavolo, porrà precondizioni. E’ troppo debole per fare altrimenti. Quanto alle trattative sulla riconciliazione interpalestinese, esse sono speculari a quelle israelo-palestinesi, in qualche modo sono antitetiche, perché se andassero avanti Netanyahu bloccherebbe ogni negoziato. Gaza, in realtà, è destinata ad entrare nell’orbita dell’Egitto. Ma l’atteggiamento del Cairo dipenderà dai suoi equilibri interni. I Fratelli musulmani sono più solidali verso l’organizzazione gemella che governa la Striscia, mentre l’Esercito è contro una eccessiva integrazione e contro la piena apertura delle frontiere. Netanyahu e Barak, conclude, non sanno valutare se Morsi è meglio o peggio di Mubarak. Ma in realtà Israele non ha strumenti per influenzare gli sviluppi della situazione, se non dà risposte al problema palestinese.

Anche secondo Sheetrit, con i palestinesi si sta solo perdendo tempo: i palestinesi devono abbandonare le pregiudiziali sugli insediamenti, anche solo per pochi mesi, e tornare a negoziare, concentrandosi sul Final status. Solo così sarà possibile mettere Netanyahu di fronte alle vere scelte da fare. Si doveva fare così fin dall’inizio, l’errore è stato anche di Obama, che è stato il primo a porre la pregiudiziale sugli insediamenti.

La realtà, continua Sheetrit, è che non c’è un leader palestinese disposto a firmare da solo un accordo con Israele, anche se questo fosse basato sui confini del ’67, e fosse risolto il problema del Diritto al ritorno, che è davvero spinoso. I palestinesi hanno bisogno degli Arabi per andare avanti, del Consenso arabo. Per questo è importante riferirsi al Piano di Pace Arabo, che fu avanzato nel 2002 e propone il riconoscimento da parte di tutti gli Stati arabi di Israele, se questi restituisce i territori occupati nel ’67, accetta la creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est, e dà una soluzione “giusta e concordata” del problema dei rifugiati. Egli perciò ha costituito una lobby a favore del Piano Arabo di Pace, cui hanno aderito 21 membri della Knesset.

Ron Pundak è l’ultimo degli interlocutori incontrati in questa perlustrazione mediorientale: tra i realizzatori degli accordi segreti di Oslo, poi Direttore del Centro Shimon Peres, da cui si è dimesso pochi mesi fa, è certamente tra i protagonisti del processo di pace israelo – palestinese.

Colpisce perciò che anche lui dipinga un quadro tutt’altro che roseo della situazione: la crisi palestinese è molto grave, la Autorità palestinese è disintegrata. Tuttavia, la leadership palestinese non vuole una nuova intifada, non vuole violenza, teme il rischio di incidenti. Quello che manca ai palestinesi, osserva anch’egli, è il sostegno del mondo arabo e una coerente iniziativa internazionale. Anche lui prevede che non ci sarà alcuna riconciliazione interpalestinese, e che Gaza finirà per entrare nell’orbita dell’Egitto.

Secondo Pundak, Bibi ha in mente altro: rafforzare il controllo e la presa sull’area C (la parte della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano), con un ulteriore sviluppo delle infrastrutture e degli insediamenti e con una legittimazione degli outpost esistenti. In caso di negoziato, quello a cui lui può arrivare è lasciare ai palestinesi il 40% della Cisgiordania già in loro possesso, più un altro 34% tratto dalle da aree A e B e magari qualche altro pezzo: in sostanza è un ritorno al vecchio Piano Allon, ma anche nel più recente Piano Mofaz vi è qualcosa di simile. Probabilmente, è questo a cui pensava anche Sharon, quando ha deciso il ritiro da Gaza.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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