Editoriale di Janiki Cingoli

Obama Netanyahu, il grande freddo

Data pubblicazione: 25 marzo 2010

Non si hanno dettagli sugli incontri tra Obama e Netanyahu, salvo il fatto che gli incontri sono stati due: dopo i primi novanta minuti di colloquio ufficiale il leader israeliano si è trattenuto per un’ora alla Casa Bianca con i suoi consiglieri, e poi ha chiesto di incontrare nuovamente il Presidente, che lo ha ricevuto per altri trenta minuti. Una procedura inusuale, che fa pensare a specifiche richieste avanzate da parte USA, su cui prima di dare risposta Netanyahu abbia sentito il bisogno di consultarsi.

Tutto l’incontro si è svolto in una atmosfera a dir poco fredda: ad ora tarda, in modo da evitare la copertura dei media televisivi, senza possibilità di accesso per i giornalisti, senza il rilascio di una photo opportunity, senza che fossero previste dichiarazioni pubbliche alla fine.

E’ evidente che gli Stati Uniti hanno ritenuto insufficiente la lettera di risposta inviata da Netanyahu alla Amministrazione USA. Già negli incontri preparatori svoltisi a Washington il Vice Presidente Biden ed il Segretario di Stato Hillary Clinton non avevano usato mezzi termini per ribadire all’ospite la richiesta di maggiori concessioni, per ristabilire la fiducia dopo lo strappo subito da Biden a Gerusalemme. Probabilmente, gli USA intendono anche verificare se le iniziative verso i palestinesi che erano state ipotizzate (quali il rilascio di prigionieri, il trasferimento di nuove “aree c” della Cisgiordania sotto il controllo dell’ANP, la rimozione di blocchi stradali) rimarranno sulla carta o saranno attuate.

Sulle costruzioni a Gerusalemme Est, Netanyahu ha per il momento scelto di tenere duro, dichiarando che “Gerusalemme non è un insediamento”, e si è fatto addirittura precedere, in vista del suo incontro, dall’annuncio della costruzione di altri venti appartamenti nell’area dell’ex Hotel Shepherd nel sobborgo di Sheikh Jarrah.

Gli esponenti USA erano certamente rimasti irritati anche dalla equiparazione, riaffermata dal Premier israeliano alla convenzione annuale dell’AIPAC – la potente lobby USA pro-Israele – secondo cui “non c’è differenza tra costruire a Gerusalemme e costruire a Tel Aviv”. “Noi siamo in disaccordo su questo”, ha puntualizzato un portavoce della Casa Bianca.

La principale motivazione addotta da parte israeliana è il grande consenso esistente in Israele intorno al principio “Gerusalemme, capitale eterna e indivisibile di Israele”. Peraltro, secondo alcuni sondaggi pubblicati sul quotidiano israeliano Ha’aretz, solo una parte compresa tra il 51 e il 48 per cento degli israeliani ritiene che si dovrebbe continuare a costruire in ogni parte di Gerusalemme, anche a costo di uno scontro con gli USA, mentre una parte compresa tra il 46 e il 41 per cento ritiene che si dovrebbe cessare di costruire nella parte orientale della città fino al termine dei negoziati con i palestinesi.

D’altronde, l’argomento del consenso pubblico non è molto consistente. Anche il Generale argentino Galtieri, quando decise di annettersi le isole Falkland, nel 1982, si giustificò con il sostegno entusiasta della sua opinione pubblica, ma non andò molto lontano, di fronte alle cannoniere inviate dalla Thatcher e alla risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Nessuno pensa ovviamente che gli Stati Uniti inviino le loro portaerei di fronte alle coste israeliane, né che si possano prevedere a breve risoluzioni impositive del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Tuttavia, non si può nascondere la sensazione che la attuale leadership israeliana abbia un po’ perso il senso della realtà, delle attuali tendenze e degli spostamenti in atto a livello mondiale. Kissinger soleva dire che Israele non possiede una politica estera, ma solo una politica interna. Netanyahu ancora una volta ha fatto ricorso alla pressione delle diverse lobby ebraiche statunitensi, sempre forti ma oramai non più compatte, o alle sue relazioni con gli esponenti del Congresso, certamente cauti e prudenti in vista delle prossime elezioni di mezzo termine di novembre.

Certo, sul breve termine quelle manovre possono produrre un risultato, e non a caso prima dell’incontro il Presidente USA ha dichiarato che non esiste una crisi tra i due paesi: “Israele è uno dei nostri alleati più stretti e noi abbiamo con il popolo israeliano un legame speciale che non può andare perso. Ma – ha aggiunto –  gli amici a volte hanno dei dissensi”.

Ma Obama, oramai, si sente rafforzato dal recente voto di approvazione della sua riforma sanitaria, e meno vincolato alle varie pressioni esterne e interne al Congresso stesso.

Tuttavia, al di là delle dichiarazioni ufficiali, appare evidente che la percezione complessiva che la Amministrazione USA ha del Governo Netanyahu è improntata a un crescente pessimismo, e che è in atto al suo interno una riconsiderazione dei rapporti con l’alleato storico, nel quadro della più complessiva riconfigurazione dell’approccio strategico globale alla intera situazione regionale. Il quotidiano israeliano Ha’aretz paragona questa evoluzione al movimento di un enorme iceberg, che appare immobile, ma che poi finisce per trovarsi in una posizione diversa.

Appare assai dubbio che il Governo israeliano nella sua attuale configurazione, con la crescente pressione esercitata dai partiti religiosi e da quelli di estrema destra, sia attrezzato  a fronteggiare questi possibili sviluppi. Tzipi Livni, la leader di Kadima arrivata prima alle elezioni senza riuscire a formare il governo, siede in riva al fiume e aspetta una telefonata da Bibi.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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