L’Editoriale 

Spezzare la spirale del terrorismo

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 8 marzo 2008

Ciò che si temeva è accaduto. L’attentato alla Yeshivà, la scuola rabbinica di Kiriat Moshè, nel cuore di Gerusalemme Ovest, fa ripiombare Israele nell’incubo dei primi due anni della Intifada II, quando il ripetersi degli attacchi ai civili aveva indotto tante madri a mandare a scuola i figli su bus diversi, perché nel caso di esplosioni almeno uno si salvasse.

Non ci sono parole per condannare questo atto, ancora una volta diretto contro teen-ager, giovani ragazzi immersi nello studio della Bibbia. L’obbiettivo dell’attacco riveste in questo caso un valore altamente simbolico: una scuola biblica è a tutti gli effetti un elemento espressivo dell’identità ebraica, e non solo israeliana, ed è proprio questo che gli attentatori volevano colpire.

E’ evidente che questi attacchi, rivolti contro esseri indifesi, sono intollerabili per il consesso civile, e non dovrebbero avere niente a che spartire con la lotta per la liberazione di un popolo. I mandanti andranno certamente ricercati e puniti, e nessuna solidarietà o tentativi di giustificazione nei loro confronti potranno essere ammessi o accettati.

Non si sa se Hamas sia o no implicata nell’attentato, ma certo ne ha gioito, festeggiandolo per le strade di Gaza: l’iniziale rivendicazione ad opera di un suo portavoce è stata successivamente ritrattata. Ma è oramai chiaro che, accanto ai razzi Kassam e ai nuovi Grad di gittata più lunga, ritorna ancora l’altra minaccia, quella dei killer mandati a morire, anche se questa volta non si è trattato di martiri imbottiti di cinture esplosive.

Questa è tuttavia la sfida di fronte a cui Israele si ritrova a far fronte, una sfida contro cui la pura forza militare non basta, come già dovette sperimentare Sharon dopo il suo ritorno al potere nel gennaio 2001. Come non basta il muro: i due attentatori provenivano da Gerusalemme Est, e disponevano di carta di identità israeliana. È evidente che l’apparato clandestino palestinese, pur duramente colpito dai servizi israeliani in questi anni dopo lo scoppio della intifada, è ancora vivo e operativo anche in Cisgiordania, e in grado di programmare iniziative sanguinose come questa, la più grave negli ultimi due anni.

Le scelte di Olmert non sono certo semplici: certo, una reazione ci sarà, il giro di vite contro le organizzazioni militari palestinesi si farà ancora più ci si era impegnati a fare ad Annapolis,  nella rimozione dei blocchi stradali, o dei cosiddetti avamposti illegali, spesso appartenenti proprio a quei nazionalisti religiosi colpiti dall’attacco dell’altro giorno.

Eppure, mai come ora pare necessario al Governo israeliano mantenere il suo sangue freddo: avvitarsi in una escalation di reazioni a catena rischierebbe di portarlo in un vicolo cieco, senza soluzione. La risposta militare non può prescindere da quella politica, e questa non può non tener conto del fatto che ciò che gli attentatori vogliono colpire è esattamente quel processo di pace che si dibatte sempre più esangue, senza riuscire a affermarsi.

D’altronde, lo scenario dello scontro è unico, e ciò che avviene a Gerusalemme, con il sangue innocente che viene sparso, è collegato a ciò che avviene al di qua e al di là della frontiera di Gaza, con i razzi che cadono sulle città israeliane e con gli attacchi mirati israeliani sempre più intensi e sempre più coinvolgenti la popolazione civile.

La pace non può essere raggiunta a pezzi. Il negoziato sul Final Status non può prescindere dalla concreta situazione sul terreno. Essa va spinta avanti, lungo le direttive che erano già state indicate da Clinton alla fine del 2000 e poi precisate nel Modello di Accordo di Ginevra, vincendo resistenze e boicottaggi incrociati. Ma accanto e non contro questo processo negoziale va condotta una trattativa per giungere alla tregua con Hamas, e al collegato scambio di prigionieri che includa la liberazione del caporale Shalit, utilizzando in particolare la mediazione egiziana già in campo; e va favorita, anziché osteggiata, la ricomposizione interna palestinese: il ritorno agli Accordi della Mecca, se possibile con una più chiara accettazione del Piano arabo di pace anche da parte della organizzazione islamica, e la ricomposizione di un Governo di Unità nazionale, garantendo già da oggi ad Hamas che in questo quadro non verrebbe rinnovato il boicottaggio nei suoi confronti.

Solo questa scelta può garantire che Hamas non si metta di traverso ai negoziati, facendoli saltare come ha già dimostrato di poter fare.

La scelta opposta, quella di una escalation a tutto campo che includa anche la rioccupazione di Gaza, sarebbe in prospettiva perdente, e a medio periodo potrebbe portare alla affermazione di Hamas anche in Cisgiordania, dove la autorità di Abu Mazen si rivela sempre più evanescente.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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