L’Editoriale

Medio Oriente. Quali scenari per la pace possibile

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 3 maggio 2010

A quasi un anno dal discorso del Presidente Obama al Cairo, che tante attese aveva suscitato nella Comunità internazionale e in particolare nel mondo arabo, si deve dire che i risultati sono scarsi, e il futuro della pace in Medio Oriente è incerto.
Lo stesso Presidente USA, in una intervista di alcune settimane fa, ha ammesso di aver posto troppo in alto l’asta delle aspettative, e che la situazione si era rivelata più complicata del previsto.
Pare oramai prossimo l’avvio dei negoziati indiretti, o di “prossimità”, tra israeliani e palestinesi, messi in piedi con grande fatica e dopo mesi di defatigante spoletta diplomatica dell’inviato speciale USA per il Medio Oriente, George Mitchell, e rimasti bloccati dopo l’annuncio della decisione israeliana di costruire 1600 appartamenti a Gerusalemme Est, annunciata nel corso della visita del Vice presidente USA Joe Biden in Israele. Un annuncio considerato dai più alti responsabili Usa come un “insulto”. Ma ancora una volta la crisi è stata in qualche modo ricomposta.
Il Presidente Obama ha dichiarato che non esiste una crisi tra i due paesi: “Israele è uno dei nostri alleati più stretti e noi abbiamo con il popolo israeliano un legame speciale che non può andare perso. Ma – ha aggiunto –  gli amici a volte hanno dei dissensi”. Le elezioni di mezzo termine, previste per novembre, si presentano già molto incerte e non è nel suo interesse acuire oltre ogni limite il confronto con lo Stato ebraico, rischiando di alienarsi il sostegno del forte e influente elettorato ebraico.
Di fatto, l’accordo trovato con Netanyahu, grazie anche alla mediazione del suo Ministro della Difesa Barak, che in pratica funge da Ministro degli Esteri verso gli USA al posto dell’impresentabile Lieberman, pare essere un congelamento di fatto di nuovi importanti progetti nella parte araba della città, almeno per i quattro mesi dei negoziati indiretti, anche se pubblicamente i leader israeliani continuano a affermare il contrario. In parallelo, sarebbero previste ulteriori misure di confidence building verso i palestinesi, quali il rilascio di prigionieri e la ulteriore rimozione di blocchi stradali, quanto dovrebbe bastare ad Abu Mazen per superare le sue persistenti riserve.
Tuttavia, al di là delle dichiarazioni ufficiali, appare evidente che la percezione complessiva che la Amministrazione USA ha del Governo Netanyahu è improntata a un crescente pessimismo, e che è in atto al suo interno una riconsiderazione dei rapporti con l’alleato storico, nel quadro della più complessiva riconfigurazione dell’approccio strategico globale alla intera situazione regionale. Il quotidiano israeliano Ha’aretz paragona questa evoluzione al movimento di un enorme iceberg, che appare immobile, ma che poi finisce per trovarsi in una posizione diversa.
In sostanza Obama si trova di fronte a tre strade, non necessariamente alternative.
La prima è riprender la politica dei piccoli passi, sperando che questa riesca a ravvicinare palestinesi e israeliani, a far iniziare i negoziati indiretti sperando che si creino le condizioni per passare poi a negoziati diretti sul Final Status. Una via quanto mai incerta, come si è visto fino ad ora, esposta a tutta la sfiducia e ai colpi di coda registratisi in questi mesi.
La seconda è presentare un proprio piano di pace, da solo o insieme agli altri partner del Quartetto (USA, Russia, UE e ONU), che potrebbe in seguito essere fatto proprio dallo stesso Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Un piano le cui linee sostanzialmente esistono già, a partire dai “Parametri di Clinton” presentati a Camp David nel dicembre 2000, e dal verbale compilato da Moratinos ai negoziati di Taba del gennaio 2001; per non parlare del punto cui era giunto il negoziato tra Abu Mazen e Olmert alla fine del 2008, prima della guerra di Gaza.
Molti dei consiglieri di Obama sostengono questa idea, come la unica praticabile, visti i continui scarti negoziali dei contendenti. Ma altri temono che la cosa venga percepita come una iniziativa dall’alto, una pace imposta.
L’iniziativa avrebbe un impatto dirompente sugli attuali equilibri politici israeliani, dato che la attuale coalizione non sarebbe in grado di reggere l’urto, e probabilmente potrebbero riaprirsi i termini per un rientro di Kadima nel governo, al posto delle componenti di estrema destra che potrebbero scegliere di uscirne.
Ma l’altro elemento di incertezza è la situazione interna palestinese, ove la frattura tra Fatah e Hamas non è stata ricomposta, malgrado la proposta di mediazione avanzata al Cairo, così come non è andata avanti l’altra mediazione, quella tedesco-egiziana per lo scambio tra il soldato israeliano Shalit e un nutrito gruppo di prigionieri palestinesi.
A quanto si sa, la trattativa su Shalit si è bloccata anche per l’intervento degli USA, timorosi che lo scambio possa rafforzare troppo Hamas a scapito di Fatah, mentre il negoziato per la ricomposizione interpalestinese ha trovato sulla sua strada l’ostruzionismo dell’Iran, deciso a far pesare nel braccio di ferro intorno al suo programma nucleare la carta Hamas.
Ma il problema resta: come è possibile far procedere un processo di pace che sia reale e non virtuale, prescindendo da una forza come Hamas, che rappresenta almeno una metà del movimento palestinese? È possibile individuare un approccio che in qualche modo includa Hamas nel processo, pur senza coinvolgerlo direttamente nel negoziato? Si può ad esempio chiedere ad Hamas una accettazione integrale e senza riserve del Piano Arabo di pace del 2002, che postula il riconoscimento da parte di tutti gli Stati arabi di Israele, se esso restituisce i Territori occupati nel ’67 e consente la creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est, e una soluzione “giusta e concordata” del problema dei rifugiati? Si tratterebbe, in sostanza di riesumare gli accordi della Mecca del febbraio 2007, in una versione rafforzata, più chiara e coerente, come d’altronde postula la stessa proposta egiziana di riconciliazione.
Questo è l’ultimo aspetto, la terza strada che Obama deve lasciare aperta. Il quadro regionale è essenziale per far avanzare il processo negoziale. Lo stesso appoggio che la Lega araba aveva dato all’avvio dei negoziati indiretti israelo-palestinesi, anche se poi rimesso in forse con l’esplodere della crisi, lo testimonia: israeliani e palestinesi da soli non ce la fanno ad andare avanti, è necessario un quadro regionale di appoggio. Ciò pone la questione della Siria, delle possibilità di una pace con Damasco, che trascinerebbe con sé anche la pace con il Libano. Non è chiaro se Israele preferisca la pace senza il Golan o il Golan senza la pace. Netanyahu pare più affezionato al Golan, Barack spinge per la scelta negoziale con la Siria, che a suo dire potrebbe portare stabilità, consolidando lo stesso ruolo regionale dello Stato ebraico. Quel che è certo è che gli USA hanno nominato un nuovo ambasciatore a Damasco, ove si alternano loro delegazioni di alto livello, che esplorano con i loro interlocutori siriani le possibili vie per far avanzare il processo di pace e consolidare i rapporti bilaterali. E la scelta è stata confermata malgrado le polemiche per il possibile invio di missili Scud a lunga gittata agli Hezbollah libanesi.
Naturalmente, tutti questi movimenti avvengono in relazione all’irrisolto nodo iraniano, che condiziona pesantemente lo stesso procedere del processo negoziale israelo-palestinese-arabo ed in primo luogo le mosse dello stesso Governo di Gerusalemme.
Va detto che probabilmente, qualsiasi movimento più consistente gli USA possano decidere di compiere, questo prenderà corpo solo dopo la scadenza delle elezioni di mezzo termine di novembre, che come si è detto rappresentano per Obama un passaggio difficile.
Un’ultima osservazione. Se lo scenario più probabile è quello di un negoziato che si trascina per i prossimi mesi senza arrivare al dunque, si pone il problema del che fare, nel frattempo, per riempire questo vuoto tendenziale se non dichiarato. La cosa più concreta appare l’appoggio, forte e concreto, al progetto del Primo ministro palestinese Fayyad, che si propone di costruire lo Stato palestinese dal basso, a partire dai successi già raggiunti nella ricostruzione delle istituzioni, nella sicurezza, nella economia, e nella stessa assistenza ai settori più disagiati.
Il Presidente Shimon Peres, recentemente, lo ha chiamato il Ben Gurion palestinese. Un nome impegnativo, da parte di un israeliano. In questa sfida, Fayyad non deve essere lasciato solo, in particolare dall’Europa, perché nel vuoto, come si sa, possono crescere le cose peggiori.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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