L’Editoriale

L’attacco israeliano a Freedom Flotilla. Dio acceca chi vuole perdere

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 1 giugno 2010

La notizia del massacro effettuato dalle forze di sicurezza israeliane nell’attacco alla flotta di navi Freedom Flotilla diretta a Gaza è incommentabile. “A coloro che vuol perdere, Dio prima toglie loro il senno” (Quos Deus vult perdere, dementat prius), dice l’antico detto latino. Questo senso di poter fare qualsiasi cosa grazie all’efficienza delle sue truppe speciali si è già dimostrata fallace nel recente attacco di Israele a Mahmud al-Mabhouh, il dirigente di Hamas ucciso a Dubai, che tante ripercussioni negative ha provocato in Europa e anche in Australia, ma ora rischia di avere conseguenze enormemente più gravi.
Quello che stupisce è l’incapacità dei dirigenti israeliani di valutare a fondo le ripercussioni di quanto avevano deciso, la sottovalutazione delle possibili conseguenze. Una incapacità che rivela una incomprensione sostanziale di come sia mutato il mondo e il contesto delle relazioni internazionali.
L’attacco alle navi dei pacifisti è avvenuto a quanto si sa in acque internazionali; tra le vittime, più di dieci secondo la televisione israeliana, vi sono militari turchi, e questo innesca una gravissima crisi diplomatica tra i due paesi tradizionalmente alleati, i cui rapporti erano già diventati molto tesi nell’ultimo anno, dopo la Guerra a Gaza. Il Premier turco Erdogan, in visita in Cile, ha denunciato il terrorismo di stato israeliano, e l’ambasciatore turco a Tel Aviv è stato richiamato in patria.
La crisi è avvenuta alla vigilia dell’incontro tra Netanyahu e Obama, che doveva riannodare i rapporti tra i due leader dopo il precedente tempestoso incontro dello scorso marzo, e il leader israeliano è stato costretto a annullare l’incontro e a rientrare in Israele.
Anche i “negoziati di prossimità”, i Proximity Talks tra israeliani e palestinesi appena iniziati dopo tante traversie, sono ora di nuovo a rischio. La Lega araba, che li aveva avallati dopo molte esitazioni, è stata riconvocata per discutere il grave incidente, e non si sa che posizione assumerà.
L’Europa e anche l’Italia hanno condannato il ricorso alla forza che ha prodotto tante vittime civili, e chiesto che venga fatta piena luce su quanto accaduto.
È cominciato ora da parte di diversi esponenti israeliani il balletto delle ricostruzioni e delle giustificazioni: può essere vero che l’accoglienza riservata alle truppe speciali a bordo delle navi attaccate sia stata non delle migliori, e forse sia degenerata in atti di violenza. Ma la questione di fondo è che quell’attacco non doveva essere ordinato, e che i rischi che si correvano erano chiari e erano stati denunciati anche da autorevoli esperti di sicurezza israeliani. Quel convoglio di navi non costituiva certo un attentato alla sicurezza di Israele, l’azione militare decisa non era certamente proporzionata alla minaccia che quella flottiglia poteva rappresentare e quanto è accaduto non doveva accadere.
Più in generale, il problema è di come possa essere mantenuto l’attuale stato di assedio pressoché totale a Gaza, ignorando le richieste dello stesso Consiglio di Sicurezza, recentemente riaffermate anche dal Quartetto (USA, Russia, UE e ONU). Gaza sta diventando per Israele un secondo Vietnam, in termini politici, e certamente sia Hamas che l’Iran sapranno sfruttare a fondo l’accaduto.
I danni, per Israele in primo luogo, sono enormi. La sua credibilità è posta in discussione. È necessario che il Governo di Gerusalemme si assuma le sue responsabilità e che la comunità
internazionale prenda una posizione netta e inequivocabile. Lo stesso leader laburista Barack, che nelle settimane scorse aveva ripetutamente chiesto che in questi mesi dedicati ai negoziati indiretti il suo governo avanzasse una propria proposta di pace, e proposto un allargamento del governo stesso a Kadima, il partito di centro diretto da Tzipi Livni, si trova ora al centro della crisi, essendo egli stesso il primo responsabile dell’accaduto, in quanto Ministro della Difesa.
È sempre più evidente che questo governo non è in grado di controllare l’azione dei suoi apparati di sicurezza e di affrontare la difficile sfida della pace in un momento così delicato e complesso.
Prima se ne trarranno le conseguenze, in Israele e a livello internazionale, meglio sarà.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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