L’Editoriale

Israeliani Palestinesi. La linea di Kerry

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:11 febbraio 2014

Si infittiscono le indiscrezioni sul possibile “Accordo quadro” tra israeliani e palestinesi. Thomas Friedman, in uno dei suoi editoriali sul New York Times, le ha riassunte con grande efficacia: sofisticati sistemi di sicurezza alla frontiera con la Giordania, per impedire il contrabbando di armi e di terroristi nello Stato palestinese, rivolto contro Israele; stazionamento di truppe israeliane per un lungo periodo di anni, dieci o quindici, nella Valle del Giordano; riconoscimento di Israele come Stato ebraico; nessuna menzione del diritto al ritorno dentro Israele dei rifugiati palestinesi, cui sarebbe tuttavia riconosciuto un indennizzo; secondo alcune indiscrezioni, vi sarebbe anche un diritto di indennizzo per i profughi ebrei, costretti a abbandonare gli Stati arabi nel ’48 e nel ’67.

Queste le pillole amare per il Presidente palestinese, Mahmoud Abbas.

Per Netanyahu, la richiesta è di accettare come base di discussione le linee di confine precedenti il ’67, con possibilità di scambi territoriali su basi di uguaglianza, per conservare i grandi insediamenti intorno a Gerusalemme e lungo la Linea verde. Quanto a Gerusalemme, Israele dovrebbe accogliere l’idea che Gerusalemme Est diventi capitale del futuro Stato palestinese.

Naturalmente, la sola idea che possa essere concepibile l’abbandono degli insediamenti al di là del “muro di difesa”, o che Gerusalemme possa essere divisa, ha scatenato l’allarme e le minacce di crisi non solo di Naftali Bennet, leader del Partito di estrema destra HaBayit HaYehudi e Ministro dell’Economia, ma anche di numerosi esponenti del Likud, dove Netanyahu è oramai ridotto in minoranza, a cominciare dal Ministro della Difesa Moshe Ya’alon, che è arrivato ad accusare Kerry di essere “ossessivo e messianico”, causando la risentita reazione del Dipartimento di Stato USA.

Stesso sbarramento si è levato quando il Premier israeliano ha adombrato la possibilità che una parte dei coloni potesse restare sotto sovranità palestinese.

Quanto ad Abbas, egli si trova a fronteggiare le continue pressioni e le ricorrenti dichiarazioni dei suoi più stretti collaboratori, che sostengono che il negoziato con gli israeliani è ormai e fallito, e che bisogna prenderne atto, rivolgendosi ai grandi organismi internazionali. Il numero due del suo team negoziale, Mohammad Shtayyeh, è arrivato a dimettersi, per rimarcare il suo dissenso. Abbas, da parte sua, ha già dichiarato di poter accettare un ritiro graduale delle truppe israeliane, anche per un periodo di cinque anni, e si è dichiarato disponibile a ospitare truppe NATO e giordane, ipotesi per il momento rifiutata da Israele.

Pure, il negoziato continua, anche se oramai si svolge, più che tra israeliani e palestinesi, tra palestinesi e USA e israeliani e USA, come ha notato il Ministro degli Esteri israeliano Lieberman, uomo tradizionalmente di destra che ora si atteggia a moderato e sostenitore del tentativo diplomatico USA, scavalcando a sinistra Bennet.

Il fatto è che nessuno vuole prendersi la colpa del fallimento, e delle sue conseguenze: per i palestinesi significherebbe alienarsi gli Stati Uniti, isolarsi dalla Comunità internazionale, che è essenziale per bilanciare il preponderante peso negoziale di Israele, mettere a serio rischio il flusso di finanziamenti, vitali per tenere in vita la Autorità palestinese. Per Israele, rompere con gli Stati Uniti significherebbe scontrarsi con l’alleato fondamentale, anche sul terreno della difesa, e per di più alimentare in maniera incontrollabile la campagna di delegittimazione e boicottaggio che già morde nell’economia israeliana, e che secondo le stime di Yair Lapid, il Ministro delle  Finanze e leader del partito di centro-sinistra Yesh Atid, potrebbe causare un danno di oltre cinque miliardi di dollari l’anno allo Stato ebraico.

D’altronde, quello che ora Kerry vuole ottenere non è più un accordo di pace definitivo, per cui mancano le condizioni, e neanche un accordo quadro sottoscritto dalle parti: egli chiede che la sua proposta di accordo quadro, quindi una proposta USA, non israelo-palestinese, venga accettata dalle parti come base comune di discussione, con il diritto tuttavia di ognuna di esse di esprimere riserve.

La situazione appare molto simile a quella di Match point, il film di Woody Allen: la palla è in bilico sulla rete, e non si sa quando e dove cadrà.

Dove passerà la linea di Kerry, quali insediamenti saranno dentro e quali resteranno fuori, come sarà assicurata la continuità territoriale dello Stato palestinese almeno in Cisgiordania? Come potranno essere i futuri collegamenti con Gaza? Dove giungerà la capitale palestinese a Gerusalemme Est, fino al sobborgo di Abu Dis o fino alla Spianata delle Moschee? Sarà in grado Netanyahu di fare aperture su questi punti, che sono il minimo accettabile per i palestinesi? Se i palestinesi avranno garanzie su questi elementi essenziali, potranno forse essere più duttili su altri, anche su questioni di principio come i rifugiati o la questione del riconoscimento di Israele come Stato ebraico. Altrimenti, l’accordo quadro si limiterà a enunciazioni di principio vaghe e senza sostanza, e sarà stata l’ennesima occasione persa.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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