L’Editoriale

Ma Sharon non era un fascista

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:13 gennaio 2014

Nell’87, in un saggio intitolato “Sinistra e questione ebraica”, ho scritto che Sharon apparteneva all’area del sionismo fascista. Si trattava di un giudizio sbagliato e grossolano.

Sharon è certo l’uomo che permise la strage di Sabra e Shatila, nel 1982, o quello della passeggiata sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, che nel settembre 2000 fu l’innesco della seconda Intifada, anche se certo non ne fu l’unica causa.

Ma egli è anche lo statista, ritornato a capo del governo israeliano nel 2001, che già nel 2003 avviò una profonda riflessione, che lo portò nel 2004 a proporre il ritiro delle truppe israeliane da Gaza e da una larga parte della Cisgiordania, quella oltre il cosiddetto “Muro”, o “Barriera di difesa”, come lo chiamano gli israeliani.

Egli, che era stato, come Ministro delle Costruzioni, il più deciso proponitore e sostenitore dell’espansione degli insediamenti, proponeva di abbandonarne una larga parte, mantenendo solo i grandi blocchi a ridosso della linea verde e intorno a Gerusalemme. Su questa base, ottenne anche una lettera di assenso del Presidente USA George W. Bush, in cui si affermava che questi grandi blocchi avrebbero dovuto restare sotto sovranità israeliana, sulla base di scambi territoriali “mutuamente concordati con i palestinesi”. Una posizione che è rimasta anche quella di Obama, negli anni successivi.

Un iniziale ritiro da tutta Gaza, e da quattro insediamenti della Cisgiordania, fu realizzato nel 2005, malgrado l’accanita resistenza dei coloni.

Ma Sharon fu costretto ad abbandonare il suo partito in rivolta, il Likud, e a fondarne uno nuovo, di impronta centrista, Kadima, in cui confluì anche Shimon Peres, che lasciò il Partito laburista insieme ad altri importanti dirigenti di quella formazione.

Nel gennaio 2006 il Premier israeliano fu colpito dalla devastante emorragia cerebrale, restando in coma fino alla morte di questi giorni.

Alla base della sua decisione di ritiro, che dopo il suo abbandono non fu completata per la parte relativa alla Cisgiordania, vi furono due fattori: l’uno, di carattere militare, che faceva ritenere necessario attestare le linee di difesa israeliane lungo un tracciato che fosse facilmente difendibile, quello del “muro”, che includeva i grandi insediamenti e anche la loro possibile espansione futura; abbandonando quindi le aree più densamente popolate dalla popolazione palestinese, quelle aree che “anche nell’accordo più favorevole per Israele non sarebbe stato possibile conservare” ed evaquandone gli insediamenti.

L’altro aspetto era quello di carattere demografico: i trend di sviluppo demografico dimostravano che, se si fossero conservati tutti i territori palestinesi occupati, realizzando il sogno di una Grande Israele, nel giro di pochi decenni i palestinesi avrebbero rappresentato la maggioranza della popolazione, e per mantenere il controllo ebraico del paese sarebbe stato necessario rinunciare al suo carattere democratico. Israele non poteva restare contemporaneamente grande, democratica e ebraica, doveva rinunciare almeno ad una di queste sue caratteristiche.

Si trattava delle elaborazioni di un grande demografo italo-israeliano, Sergio Della Pergola, che mi ha confermato di aver avuto in quel periodo lunghe conversazioni con il Premier israeliano, arrivando a convincerlo.

Il ritiro da Gaza rappresentò tuttavia un fatto di portata storica. Il suo limite fu che esso non fu in alcun modo concordato con la leadership della Autorità Nazionale Palestinese, ma al contrario rappresentò un atto totalmente unilaterale, e di fatto finì per consegnare il controllo di Gaza ad Hamas, con il colpo militare del 2007. Se di questo rischio Sharon fosse consapevole, è arduo dirlo: ma è impossibile che egli non ne avesse percepito il pericolo. Più probabile è che egli preferisse trovarsi di fronte un movimento palestinese spaccato, ritenendolo più controllabile: come De Gaulle, che diceva di amare talmente la Germania, che preferiva averne due.

Sharon nutriva infatti una totale sfiducia verso i palestinesi, che non riteneva potessero rappresentare un partner per la pace, e aveva scelto di confinare Arafat in una stanza della Mukata’a, a Ramallah, sotto il costante controllo dell’esercito israeliano, fino alla morte a Parigi, nel 2004.

Il bivio di Sharon, con la sua grandezza e i suoi limiti, è lo stesso che oggi è dinanzi a Benjamin Netanyahu. Secondo voci ricorrenti, anch’egli si renderebbe conto ormai che le dinamiche demografiche impongono il ritiro del suo paese da una larga parte della Cisgiordania, e che un compromesso con i palestinesi è necessario. Ma le resistenze che incontra non solo nei partiti alleati di estrema destra, come Habayit Hayehudi guidato da Naftali Bennet, ma dentro lo stesso Likud-Beitanu, dove oramai controlla solo 8 deputati sui 31 che conta in totale la formazione, nonché le stesse sue intime resistenze personali, gli rendono oltremodo difficile seguire le orme di Sharon e riuscire a superare i suoi limiti.

Nei prossimi giorni il Segretario di Stato Usa, John Kerry, presenterà le sue proposte per “l’accordo quadro” con i palestinesi, ed allora sapremo quale strada sceglierà Netanyahu.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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