L’Editoriale

L’Egitto ha bisogno di una pausa per scongiurare il fantasma d’Algeria

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 8 luglio 2013

È durata poche ore la nomina di Mohamed ElBaradei a nuovo premier ad interim dell’Egitto. Essa si è scontrata con il rifiuto totale della Fratellanza musulmana, che vede in lui un rappresentante degli interessi USA e un docile strumento al servizio dei militari. Ma soprattutto ha pesato il no di Al-Nour, il partito salafita che aveva ottenuto oltre il 27,8% dei voti alle elezioni parlamentari del novembre 2011, classificandosi come secondo partito islamico del paese. Un partito su posizioni più estreme rispetto ai Fratelli musulmani, un partito che propugna lo Jihad, la guerra santa, ma che pure non ha esitato a scavalcare i Fratelli nel loro rifiuto del golpe, dicendosi disposto a cooperare alla Road Map proposta dai militari per assicurare la transizione democratica del paese.

ElBaradei è un diplomatico egiziano, per anni ambasciatore del suo paese all’ONU. Dal 1997 al 2009 è stato direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), e per il suo impegno nel 2005 ha ricevuto il Premio Nobel per la pace. Era parso ai militari il candidato più adatto ad offrire una faccia presentabile e rassicurante al mondo e in particolare agli Stati Uniti.

Egli è una di quelle figure più popolari all’estero che in patria, ove non gode di grande consenso e non può fondarsi su una propria base elettorale. Un po’ come Gorbaciov ai suoi tempi, solo che Gorbaciov contava di più.

Proprio per questo era l’uomo ideale per le forze armate, certe che non avrebbero trovato in lui un possibile contrappeso. D’altronde, i militari in Egitto hanno quasi sempre preferito “guidare da dietro” e non esporsi in prima persona, per amministrare al riparo dai riflettori i propri interessi e le proprie priorità.

Probabilmente, non ha giovato a El Baradei il farsi vedere a festeggiare il colpo di stato appena attuato, al fianco del Capo di Stato Maggiore e Ministro della Difesa, General Abdel Fattah al-Sisi, dopo aver sollecitato apertamente l’intervento militare per deporre Morsi. La prospettiva di un inevitabile acutizzarsi dello scontro con le forze islamiche ha finito per bloccare la sua candidatura.

D’altronde lo stesso Segretario alla Difesa USA, Chuck Hagel, era intervenuto ripetutamente in queste ore, attraverso telefonate al suo omonimo Al Sisi, chiedendo che si evitasse di inasprire ulteriormente la situazione, con conseguenze imprevedibili.

Quello che si vuole assolutamente evitare è una ripetizione dell’esperienza algerina, dove al colpo di stato contro la vittoria del Partito islamico, nel 1991, seguì un decennio di guerra civile terribilmente sanguinosa.

I Fratelli musulmani hanno certamente commesso molti errori e hanno subito un duro colpo, uscendo drammaticamente indeboliti dallo scontro con l’opposizione laica e con l’esercito. Ma anche se fossero messi fuori legge, ciò non segnerebbe la loro fine. Fuori legge sono stati per decenni, durante il periodo nasseriano e post nasseriano, ma hanno saputo vivere in clandestinità e radicarsi nella società, a partire dalle moschee, per poi riemergere come primo partito dopo la caduta di Mubarak. Non è escluso che, se si votasse oggi, essi non sarebbero in grado di riconquistare la maggioranza. Quello che è sicuro è che lo scontro con loro diverrebbe senza quartiere.

Altra preoccupazione è l’acutizzarsi del conflitto con la minoranza copta, che costituisce il 20% della popolazione, e che viene percepita dagli islamici tra gli ispiratori del colpo militare. Infine, la contrapposizione frontale in atto non può che rafforzare le componenti jihadiste e qaediste, presenti anche all’interno dei salafiti o collegate con essi, formazioni che hanno già cominciato a rilanciare i loro attacchi terroristici nel Sinai, che sta diventando ingovernabile, e nello stesso Nord del paese.

È evidente che il paese ha ora bisogno di una pausa, che consenta a tutte le parti un momento di riflessione. Se questo non avverrà, la situazione non potrà che deteriorarsi, e nuovo sangue verrà sparso, oltre alle decine di morti di questi giorni, con gravissime conseguenze anche per la pesantissima crisi economica che attanaglia il paese, di cui il crollo delle riserve valutarie è indice impietoso.

L’articolo è stato pubblicato sull’Huffington Post.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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