L’Editoriale

Kerry in Medio Oriente, il cuore oltre l’ostacolo

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 22 luglio 2013

Riprendono quindi i negoziati tra israeliani e palestinesi, o per meglio dire riprendono i pre-negoziati sul negoziato: la settimana prossima si incontreranno a Washington le due delegazioni, quella israeliana guidata da Tzipi Livni, il Ministro della Giustizia titolare della delega per il negoziato (che sarà accompagnata dall’esperto di fiducia di Netanyahu, Yitzhak Molko), quella palestinese guidata dal Capo negoziatore Saeb Erikat. Come ha annunciato da Amman un emozionato John Kerry, alla sua sesta missione in Medio Oriente in meno di quattro mesi, quella che è stato raggiunto è un accordo di base, ma molti dettagli devono ancora essere definiti.

Va dato atto a Kerry di aver gestito il suo compito con un grande senso della misura: mai forzando i toni e mai cercando gli effetti mediatici, ma sempre alla testarda ricerca del più piccolo spiraglio per andare avanti. Anche ora, non ha fornito i dettagli delle intese, rinviando ad un suo successivo annuncio.

Per quel che se ne sa, i palestinesi avrebbero ottenuto un risultato a cui tenevano molto: il rilascio dei 120 prigionieri detenuti da prima degli Accordi di Oslo, cui si accompagnerebbe un altro centinaio di altri incarcerati. Netanyahu, per quanto riluttante, ne avrebbe accettato un rilascio a scaglioni, per evitare che i palestinesi abbandonino subito il negoziato una volta ottenuta la loro librazione: un gesto di buona volontà, si sottolinea da parte israeliana, non il soddisfacimento di una precondizione.

Su altri due punti, di estrema delicatezza, si sarebbe andati ad una soluzione salomonica: il negoziato farebbe riferimento ai confini del ’67, con possibili scambi territoriali, ma questa formulazione non impegnerebbe gli israeliani; verrebbe fatta menzione di uno Stato ebraico al fianco di quello palestinese, ma questa formulazione non impegnerebbe i palestinesi.

Per quanto riguarda gli insediamenti, non ci sarebbe un congelamento ufficiale, ma continuerebbe il freno alle costruzioni fuori dei grandi blocchi e nella emissione di nuovi appalti pubblici concernenti.

Un punto importante, Kerry lo ha conseguito nei giorni scorsi, ottenendo l’appoggio al framework negoziale proposto dei rappresentanti della Lega Araba, appositamente convocati ad Amman. Questo non ha impedito ai vertici dell’OLP, convocati per approvare l’accordo, di esprimersi criticamente su di esso, non dando via libera al Presidente Abbas, che ha dovuto fare di testa sua.

D’altra parte, anche la destra israeliana si è fatta sentire: Naftali Bennett, Ministro del Commercio, Industria e Lavoro e leader di del Partito di destra Habayit Hayeudi (La casa ebraica), ha minacciato di uscire dal governo se il negoziato sarà basato sui confini del ’67, subito bilanciato dalla leader dell’opposizione laburista, Shelly Yachimovich, che ha annunciato la sua disponibilità a rimpiazzarlo per consentire ai negoziati di procedere. Non è un caso se, all’ultimo minuto, Il presidente Obama, che si era tenuto fuori dal tentativo di Kerry per evitare di esporsi ai possibili contraccolpi di un suo fallimento, ha telefonato a Netanyahu incoraggiandolo ad andare avanti accettando le proposte di mediazione avanzate.

Un episodio contraddittorio è stato l’annuncio, da Parte della Commissione Europea, della nuova Direttiva, pubblicata lo scorso venerdì, che a partire dal 2014 esclude da finanziamenti, premi e contratti tutte le entità israeliane localizzate negli insediamenti. La Direttiva, che ha colto di sorpresa gli israeliani, può essere sembrata in controtendenza rispetto al paziente lavoro di rassicurazione condotto da John Kerry, ed un atto destinato a incidere nel futuro delle relazioni tra Israele e l’UE. Potrebbe essere valutato un po’ come un esempio della politica del gendarme buono e di quello cattivo, tanto più che l’UE ha lasciato trasparire che, in caso di mancato esito positivo del negoziato, altre iniziative potrebbero essere prese, quali l’imposizione di una etichettatura differenziata per i prodotti provenienti dagli insediamenti, che verrebbero così a perdere i benefici doganali e tariffari riservati a Israele; o anche la richiesta di visti di accesso in Europa per i coloni.

Le tensioni, comunque, restano forti, e l’annunciato ritorno al tavolo negoziale, la prossima settimana, non significa che i problemi siano risolti, anzi probabilmente essi stanno per cominciare. Le trattative sono destinate a durare per mesi, e gli israeliani sicuramente cercheranno di doppiare il capo di settembre, con l’annuale Assemblea Generale dell’ONU, ove i palestinesi potrebbero cercare di riproporre l’ammissione della Palestina come membro a pieno titolo.

Questa analisi è stata pubblicata sull’Huffington Post

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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