L’Editoriale

Israeliani Palestinesi. Riparte un negoziato incerto

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 31 luglio 2013

Dopo circa tre anni, si può scrivere ufficialmente che i negoziati tra israeliani e palestinesi sono ripresi, a Washington.

Gli incontri preliminari per definire gli ultimi dettagli diplomatici sono andati bene, e un soddisfatto ma cauto John Kerry, l’infaticabile Segretario di Stato USA che è tornato in Medio Oriente per sei volte in quattro mesi, per convincere le recalcitranti parti in conflitto a riprendere le trattative, ha potuto annunciare in conferenza stampa che i rappresentanti israeliani e palestinesi torneranno a incontrarsi entro le prossime due settimane in Israele o Palestina, e che i negoziati dureranno nove mesi. Dopo di lui hanno brevemente preso la parola, dando conferma dell’accordo raggiunto, i due capi delegazione, l’israeliana Tzipi Livni, Ministro della Giustizia delegata alla trattativa, e Saeb Erikat, lo storico capo negoziatore palestinese.

Kerry ha aggiunto che i negoziati saranno riservati, e che soltanto lui è autorizzato a fornire informazioni sui loro sviluppi, in modo da consentire il migliore clima agli incontri.

Al loro arrivo, le due delegazioni sono state ricevute separatamente dal Segretario di Stato USA, che poi le ha invitate insieme a casa sua per l’iftar, la cena tradizionale che segna la fine del digiuno durante il Ramadan. Vi è stato poi la prima riunione, cui ne ha fatto seguito una seconda la mattina dopo.

Ma l’elemento clou della mattinata è stato l’incontro con il Presidente Obama, che ha così posto il suo suggello al riavvio del processo di pace, dopo essersi tenuto relativamente in disparte durante i quattro mesi dell’ostinata spoletta di Kerry nell’area.

I problemi, si deve dire, cominciano adesso, e basta elencare le questioni che saranno tutte al centro degli incontri sul “Final status”, i confini, gli insediamenti, la sicurezza, i rifugiati, Gerusalemme, l’acqua, per comprendere che non si tratterà di una passeggiata.

Tuttavia, alcuni segnali importanti vi sono stati, come l’annunciato rilascio, a scaglioni, dei 104 prigionieri palestinesi detenuti da prima degli accordi di Oslo del ’93. Esso è stato imposto da Netanyahu ad un governo recalcitrante, ottenendo il voto favorevole di 13 ministri contro 7 e due astenuti. Non si è trattato certo di una decisione facile, dato che molti di essi si erano macchiati di delitti efferati.

Inoltre, pur senza dichiarare una moratoria ufficiale degli insediamenti, un certo rallentamento di fatto sarebbe stato assicurato, in particolare per quanto riguarda gli insediamenti più esterni, al di là del muro, e gli appalti pubblici.

Il Segretario di Stato USA, nella conferenza stampa, ha poi preannunciato nuove iniziative israeliane, per alleviare la vita quotidiana della popolazione in Cisgiordania, riferendosi probabilmente ai problemi di movimento delle persone e dei beni in Cisgiordania, e forse anche ad una possibile estensione dei poteri della Autorità palestinese su una parte almeno della Area C, oggi a totale controllo israeliano.

Ciò ha innescato una discussione, in Israele e nella stampa internazionale, se stiamo assistendo ad una trasformazione del falco Netanyahu, simile a quella che subirono prima di lui Olmert, Sharon e lo stesso Begin.

È presto per dirlo, ma le dichiarazioni del Premier israeliano, che ha motivato la scelta di rilanciare il processo negoziale con la necessità di evitare che Israele diventi uno Stato binazionale, se dovesse annettersi i territori palestinesi, sono certamente significative e testimoniano di una evoluzione in quella direzione.

Una evoluzione che nessuno oggi può dire quanto sia compiuta, o quanto invece spinta da un senso di urgenza e di necessità. L’isolamento di Israele comincia a preoccupare la sua leadership anche economica, e la recente direttiva della Commissione Europea, che ha posto al bando la possibilità di erogare contributi e finanziamenti della UE ad attività poste negli insediamenti, ne è stato un segnale evidente e un campanello di emergenza ben udito, al di là delle proteste ufficiali. Se Israele avesse rifiutato l’invito di Kerry, si sarebbe probabilmente riaperta la questione delle etichette di origine sui prodotti provenienti dagli insediamenti o anche la questione dei visti per l’Europa per i coloni. Né possono essere ignorati gli sviluppi a livello regionale, dall’Iran alla Siria allo stesso Egitto, che rafforzano l’esigenza israeliana di poter contare sull’alleanza e il sostegno degli Stati Uniti.

Dal canto loro, i palestinesi si sarebbero impegnati per questi mesi a non ricorrere alla Assemblea Generale e agli organismi internazionali dell’ONU, quale la Corte Internazionale di Giustizia, per tutelare i loro diritti, e a rafforzare la cooperazione tra i rispettivi servizi di sicurezza.

Vi è poi quel famoso piano di 4 miliardi di dollari, annunciato da Kerry ad Amman e che dovrebbe essere coordinato da Tony Blair a nome del Quartetto (USA, UE, Russia e ONU), quartetto che non a caso è tornato a riunirsi in questi giorni, segnalando di essere in vita. Un piano economico per il rilancio dell’economia palestinese e dell’intera area, a cui la leadership dell’ANP non è certo indifferente, malgrado le dichiarazioni ufficiali di distacco.

D’altronde il Presidente Mahmoud Abbas in questi giorni può sentirsi un po’ più libero e autonomo, per l’evidente crisi in cui versa il rivale Hamas, che ha visto deposto il Presidente Morsi e messi al bando i cugini Fratelli Musulmani, con la conseguente chiusura dei valichi e la distruzione della quasi totalità dei tunnel verso l’Egitto. Non è un caso che Abbas si sia recato a rendere omaggio ai nuovi governanti de Il Cairo, sperando forse di rinverdire gli antichi fasti dei tempi di Mubarak.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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