L’Editoriale

Egitto. L’esercito non è la soluzione

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 5 luglio 2013

Faceva un certo effetto, mercoledì sera, vedere il liberale e Premio Nobel Mohamed ElBaradei festeggiare al fianco del Capo di Stato Maggiore e Ministro della Difesa, General Abdel Fattah al-Sisi, il colpo di stato che ha deposto il Presidente Mohamed Morsi, regolarmente eletto nelle elezioni del giugno 2012.

Uno strano colpo di stato, salutato da milioni di manifestanti in festa. Che gli stessi Stati Uniti non hanno voluto definire tale, per evitare immediate ripercussioni sul programma di aiuti militari al paese, che ammonta a 1,3 miliardi di dollari all’anno.

Le nuove proteste di Piazza Tahir di questi giorni hanno espresso, oltre alla mobilitazione dei gruppi di opposizione più tradizionali anche l’esasperazione di masse popolari sempre più vaste, schiacciate dalle privazioni e dalla mancanza di prospettive. Una nuova protesta saldatasi intorno al gruppo giovanile Tamarod (Ribellione).

Non è ben chiaro quale strada sceglieranno ora i Fratelli Musulmani, la formazione politica che aveva espresso il deposto presidente, i cui massimi dirigenti sono stati messi agli arresti. Essi hanno dichiarato che non prenderanno parte ai tentativi di formare un nuovo governo di unità nazionale, e hanno indetto una giornata di protesta contro l’intervento dell’esercito. Ma hanno fatto appello ad una protesta pacifica e disarmata (contrariamente ai salafiti, che hanno invece minacciato il ricorso alla lotta violenta e al terrorismo, in connessione anche con gruppi qaedisti).

Chi parla di fine dei Fratelli Musulmani, comunque, fa un conto sbagliato. Essi sono stati fuori legge per decenni, durante il periodo nasseriano e post nasseriano, ma hanno saputo radicarsi nella società, per poi riemergere come il primo partito dopo la caduta di Mubarak. Ora certamente hanno subito un duro colpo, e escono drammaticamente indeboliti dallo scontro con l’opposizione laica e con l’esercito.

La causa essenziale del loro fallimento è stata l’incapacità di governare, unita alla demagogia e alla bramosia di potere. Il crollo della lira egiziana ne è stato l’indice impietoso. Vano ogni tentativo di modificare il sistema di sostegno indifferenziato al prezzo dei generi di prima necessità, dai viveri alla benzina, che continua a drenare impietosamente le riserve valutarie: le proposte di sostituirlo con interventi rivolti solo agli strati più bisognosi della popolazione si bloccavano per il timore delle proteste, dopo tutte le promesse populiste fatte in campagna elettorale.

Parallelamente, si arenava il prestito di 4,3 miliardi di dollari del Fondo Monetario internazionale; il turismo, fonte essenziale di entrate, crollava di oltre il 20%, a causa delle condizioni generali di insicurezza determinatesi; la paralisi si estendeva gradualmente a larga parte del sistema produttivo.

D’altronde il governo non sarebbe stato comunque in grado di intervenire efficacemente su quella ampia sacca di privilegio e di strutture obsolete, che ingessa larga parte dell’economia egiziana: lo impediva tra l’altro il compromesso raggiunto da Morsi nell’agosto 2012 con i “giovani ufficiali”, in cambio della destituzione della vecchia guardia guidata dal Maresciallo Tantawi. Esso garantiva il mantenimento dei più corposi privilegi economici e sociali di cui l’esercito gode e di cui non vuole certo privarsi: esso controlla direttamente oltre il 30 per cento dell’economia del paese, e fruisce di un sistema di welfare, che va dalle abitazioni, ai circoli ricreativi e sportivi, alle ville e alle case di vacanza, ad un sistema sanitario riservato, privilegi che non costituiscono solo uno status symbol, ma garantiscono un livello di vita e un potere sulla società non facilmente rinunciabili.

Fu proprio quel compromesso, tuttavia, che permise a Morsi di insediarsi nella pienezza dei suoi poteri, segnando un punto di svolta. Egli a quel punto ritenne di poter fare a meno dell’alleanza con l’opposizione di Piazza Tahir, di cui aveva avuto bisogno fino a quel momento, per contenere le pressioni delle forze armate.

I Fratelli Musulmani si avviavano così verso un approccio sempre più esclusivo nella concezione e nella gestione del potere, testimoniato dal processo di elaborazione della nuova Costituzione, che veniva formulata da una assemblea costituente a forte predominanza islamica, elaborata con un approccio non inclusivo e imposta con un contestato referendum nel dicembre 2012, malgrado le massicce e anche violente manifestazioni della opposizione.

È da quel momento, probabilmente, che comincia il riavvicinamento tra l’opposizione laica e l’esercito, memore della eredità nasseriana, e l’inizio della parabola discendente di Morsi, conclusasi con la sua deposizione.

Dopo la nomina dell’incolore giurista Adly Mansour come presidente ad interim, si parla ora di Mohamed El Baradei come del nuovo possibile premier. Si tratta di una personalità certo non forte. Ma chiunque sarà, si troverà comunque di fronte agli stessi problemi, con la disperazione di quella popolazione che è scesa in piazza in questi giorni e che sarà alimentata, e non più contenuta, dalla rabbia e dal desiderio di rivalsa dei Fratelli Musulmani e dei gruppi salafiti. E dovrà anche fare i conti con quello stesso esercito che lo avrà insediato al potere, e continuerà come sempre a presidiare il suo feudo economico e sociale. Un esercito che si è sentito nuovamente costretto a intervenire, e ora si sente più forte e determinante: probabilmente non vorrà esercitare direttamente il potere, ma difficilmente rinuncerà nuovamente a controllare e a influire pesantemente sulle scelte pubbliche e di governo. Un esercito che è parte del problema, non ne è la sua soluzione.

Questo articolo è stato pubblicato sull’Huffington Post.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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