L’Editoriale

Israele, la vittoria di Pirro di Netanyahu

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 24 gennaio 2013

Quella di Netanyahu è stata una vittoria di Pirro, come l’ha definita il quotidiano israeliano Ha’aretz: i 31 seggi guadagnati (su un totale di 120) fanno della sua la prima lista, rispetto ai 19 della seconda classificata, Yesh Adit (“C’è un futuro”), il partito-sorpresa di queste elezioni, ultra laico, guidato dal giovane e famoso anchorman televisivo Yair Lapid.

Questo risultato metterà Netanyahu nella condizione di ottenere il primo incarico di formare il nuovo governo da parte del Presidente Peres. Ma il prezzo pagato, per la confluenza realizzata con Yisrael Beitenu, il partito dell’ex-Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, è stato sicuramente troppo alto e imprevisto: insieme al Likud i due Partiti assommavano nella precedente Knesset a 42 seggi, la perdita è stata quindi di 11 seggi, oltre un quarto del totale. Destra e sinistra oggi sono testa a testa, anche se gli ultimi dati danno una lieve maggioranza alla destra con 61 seggi contro 59.

Può certo aver pesato l’incriminazione di Lieberman, che ne ha causato le dimissioni da Ministro. Ma vi è probabilmente un altro elemento, più di fondo: spaventato per la concorrenza a destra dell’altra sorpresa di queste elezioni, il quarantenne Naftali Bennet, leader di Habayit Hayehudi (“La casa degli ebrei”), già portavoce del movimento dei coloni (il quale aveva tra l’altro avanzato la proposta di annettere ad Israele tutta l’Area C, pari al 62%della Cisgiordania), il Premier israeliano ha lanciato una campagna di nuovi insediamenti a Gerusalemme Est e in altre zone, attirandosi la forte reazione dell’Europa e degli USA, con le durissime dichiarazioni informali rese ad un giornalista dallo stesso Presidente Obama, che lo ha accusato di portare Israele all’isolamento e di non fare i suoi veri interessi; si è scontrato inoltre con lo stesso Presidente Shimon Peres, che lo esortava a riprendere il negoziato con i palestinesi; ed ha finito per caratterizzare la sua posizione troppo a destra, tralasciando di parlare dei problemi quotidiani della gente, le case troppo care, il caro-vita, fonte del largo disagio sociale che aveva portato alle grandi manifestazioni di due estati fa: senza d’altronde riuscire ad arrestare l’emorragia di voti verso il partito di Bennet, che ha totalizzato 12 seggi.

Un’altra questione scottante è stata sicuramente quella dell’esenzione dal servizio militare dei giovani religiosi ortodossi: un argomento che Netanyahu si è ben guardato dallo sfiorare, per non inimicarsi i Partiti religiosi, ma che è al contrario divenuto uno dei principali cavalli di battaglia di Lapid. Il problema è oramai divenuto centrale, perché la società israeliana oramai non può più permettersi di mantenere una fetta così consistente della popolazione fuori non solo dall’obbligo di leva o del servizio nazionale alternativo, ma anche dallo stesso mercato del lavoro: la perdurante esenzione è oramai percepita come un privilegio e un fardello oramai intollerabili.

D’altronde, la stessa composizione della lista di Likud Beytenu, con l’esclusione dei leader più conosciuti come Benny Begin e Mickey Eitan, a favore dei “giovani turchi” del Partito, ha contribuito a indebolire i canali di comunicazione con il Centro e con quella parte dell’elettorato, che ha preferito seguire Lapid o perfino lo stesso Bennet, visti come giovani, innovatori e concreti, rispetto alla generazione dei vecchi leader lontani dai sentimenti e dai bisogni reali dei cittadini.

Lo spostamento a sinistra è stato comunque netto: il Centro-Destra ha oramai una maggioranza troppo risicata nella Knesset, non sufficiente ad esprimere un governo: il Centro Sinistra, insieme ai partiti arabi, lo ha quasi raggiunto, passando da 55 a 59 seggi. Forse, esso non è stato abbastanza consapevole delle possibilità di vittoria, dando per scontata la prevalenza di Netanyahu, e non ha combattuto con sufficiente convinzione per raggiungerla, creando una credibile coalizione alternativa.

Al suo interno, il Labour arriva a 15 seggi, con un lieve aumento rispetto al precedente risultato, ma comunque lontano rispetto alle previsioni della vigilia, che glie ne attribuivano 19. La scelta di Shelly Yachimovich, la sua leader, di tralasciare i temi del processo di pace, puntando tutto sugli aspetti sociali, non si è dimostrata vincente: le sue ambizioni sono state ridimensionate, a vantaggio di Lapid e anche del tradizionale partito della sinistra sionista, il Meretz, che pareva oramai in via di estinzione e invece raddoppia i suoi mandati da 3 a 6. Tanti quanti ne conquista Tzipi Livni, che ha dovuto ridimensionare le grandi ambizioni con cui era uscita da Kadima. La Livni aveva rifiutato di collegarsi elettoralmente al Labour, mancando così l’occasione di promuovere una candidatura credibile in grado di competere con Netanyahu. Inarrestabile la caduta di Kadima, che crolla da 28 a due seggi. Sostanzialmente stabili i partiti arabi, con 11 seggi.

Ora Netanyahu, e lo stesso Lapid, paiono puntare ad un ampio Governo di Unità Nazionale, da Lapid a Bennet ai religiosi, forse alla stessa Livni. Ma non sarà facile: al di là delle rivalità anche acute tra le diverse formazioni e personalità, lo scoglio del servizio di leva dei giovani religiosi è una pregiudiziale per Lapid, un macigno per i Partiti religiosi, e trovare un compromesso non sarà facile. C’è già chi parla di un possibile ricorso a nuove elezioni.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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