L’Editoriale

Fatah-Hamas, lavori in corso

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 9 febbraio 2012

L’accordo Fatah-Hamas, firmato l’altro giorno a Doha, nel Qatar, dal presidente palestinese Mahmoud Abbas e dal leader islamista, Khaled Meshaal, si presta a diverse letture e risponde a diversi interessi. Esso prevede che premier del futuro governo di unità nazionale, destinato a portare i palestinesi a prossime elezioni, sia lo stesso Abbas, e che gli sforzi siano concentrati sulla ricostruzione di Gaza. Si postula inoltre la riforma dell’Olp, con l’ingresso di Hamas e delle altre componenti di impronta islamica che finora ne sono rimaste escluse.

Non è detto che l’accordo venga attuato, come già successo altre volte in questi mesi, e che non resti sulla carta. Ma esso indica una comune volontà verso la riconciliazione interpalestinese. Meshaal è spinto da diverse circostanze. Ha lasciato la Siria, dove Hamas aveva trovato ospitalità e rifugio per anni, dopo che la repressione del regime aveva continuato a infierire contro i manifestanti, guidati dagli stessi Fratelli musulmani, cui anche Hamas si richiama.
Ha subito il taglio dei finanziamenti dagli iraniani, irritati per il mancato sostegno all’alleato siriano. Anche dalla Fratellanza egiziana, uscita vittoriosa dalla recente tornata elettorale, e all’inizio di importanti contatti ad altissimo livello con l’amministrazione statunitense, vengono pressioni perché venga intrapresa una via più moderata e realistica, anche riguardo a Israele.

Infine, si acutizza la concorrenza con la leadership di Gaza, con il premier Ismail Haniyeh che accentua la sua indipendenza ed effettua visite in Iran e nei più importanti paesi del Golfo, ricevuto con tutti gli onori.

Meshaal ha già affermato di non voler concorrere nuovamente per la leadership nelle prossime elezioni per il rinnovo delle cariche dirigenti del movimento. Non si sa ovviamente se è una scelta definitiva o una mossa tattica, per stanare potenziali avversari.

Discorso analogo per quanto riguarda Mahmoud Abbas. La recente tornata di incontri preliminari, svoltisi in Giordania sotto l’impulso del re Abdullah II, sono sfociati in un nulla di fatto. Questo significa che la dirigenza di Fatah dà oramai per scontato che fino a dopo le elezioni americane e alla formazione della nuova amministrazione a Washington non si farà niente, tutto è in altre parole rimandato alla fine del 2013.

Si tratta quindi di effettuare una lunga traversata del deserto, e in questa ottica l’obiettivo della ricomposizione interpalestinese ritorna prioritario. Il tentativo di arrivare al riconoscimento dello stato palestinese da parte dell’Onu non ha conseguito il quoziente di voti necessari in Consiglio di sicurezza e ha incontrato la fiera opposizione statunitense, finendo per arenarsi (l’ammissione come membro a pieno titolo conseguito preso l’Unesco non è comparabile, e ha comunque creato seri strascichi con gli Stati Uniti, che in una certa fase hanno bloccato i finanziamenti all’Anp).

Anche Mahmoud Abbas ha dichiarato di non volersi ripresentare alle future elezioni presidenziali dell’Autorità palestinese, pur se non si comprende chi possa sostituirlo. È probabile che i due leader non vogliano concludere la loro esperienza come gli artefici della spaccatura palestinese.

L’altro elemento rilevante è la scelta, su cui entrambi i leader pongono l’accento, di puntare sulla lotta popolare contro l’occupazione, come alternativa di massa rispetto alla lotta armata. Si tratta di vedere, ovviamente, come questa indicazione strategica, rilanciata da Meshaal in più interviste, trovi ascolto nella componente militare del movimento a Gaza, e nella stessa dirigenza del governo locale, per nulla ansioso di rinunciare al potere in favore del presidente Abu Mazen.

Rimane però da capire quali saranno le reazioni di Israele, e quelle della comunità internazionale. Netanyahu ha già detto che Abbas deve scegliere tra la pace con Israele e quella con Hamas. Tuttavia non può non ricordare che è stato proprio lui – con lo scambio tra oltre mille prigionieri palestinesi e il caporale Shalit, tenuto in ostaggio a Gaza – a rafforzare fortemente il movimento islamico e la sua popolarità presso l’opinione pubblica palestinese. Quanto alla comunità internazionale e agli Stati Uniti, le prime reazioni sono caute: è difficile definire terrorista un governo presieduto da Mahmoud Abbas.

Ma soprattutto, nel momento in cui si apre il confronto con i Fratelli musulmani vittoriosi nelle ultime elezioni in diversi paesi arabi, è difficile mantenere l’ostracismo verso Hamas, che di quel movimento è parte integrante.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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