L’Editoriale

A un anno dalla primavera araba, si annuncia una difficile transizione

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 2 gennaio 2012

A un anno dall’inizio della primavera araba, si annuncia una difficile transizione. I primi risultati delle consultazioni elettorali che si sono tenute in diversi paesi arabi, dall’Egitto, alla Tunisia, al Marocco, e le prossime tornate previste per il 2012, ancora in Egitto, in Libia e forse nello Yemen, hanno tutti un elemento comune: l’affermazione o l’emergere di partiti islamici di massa, spesso legati alla Fratellanza musulmana, e la consistente affermazione, al loro fianco, di partiti islamisti radicali, di impronta salafita (legati all’approccio integralista di stampo wahabita, nato originariamente in Arabia Saudita).

Nei primi due turni elettorali in Egitto, i primi, con il Partito della libertà e giustizia, hanno raggiunto il 45 per cento, mentre i secondi si sono attestati sul 25-30 per cento. Il blocco laico si è fermato al terzo posto, con un 15-20 per cento dei voti.

Stesso andamento in Tunisia, dove il partito islamico Ennahda (la Rinascita) ha sfiorato il 40 per cento. In Marocco (ove pure il processo di democratizzazione è stato in larga parte pilotato dal re), il Pjd, Partito della giustizia e dello sviluppo, ha conquistato circa un quarto dei seggi, classificandosi al primo posto. In Libia, ove si voterà nel 2012 in data ancora incerta, i raggruppamenti islamici, spesso ancorati alle diverse realtà tribali, si annunciano molto forti.

Grande lo sconcerto in Occidente, ove non è mancato chi ha subito agitato lo spauracchio islamico. Gli Stati Uniti (ed anche, più in sordina, gli israeliani) hanno subito attivato canali di contatto con i vincitori. Quella a cui stiamo assistendo è l’ultima onda d’urto del crollo del Muro di Berlino, nel 1989, e del sistema bipolare che fino ad allora aveva retto il mondo, nel bene e nel male. Il mondo arabo era rimasto attanagliato in quella morsa: il blocco sovietico aveva sostenuto i movimenti nazionalistici arabi, con i movimenti di liberazione nazionale affermatisi in Algeria e Tunisia, e quelli dei Giovani ufficiali impostisi in Egitto, Iraq, Iran e Libia: ovunque, alla vittoria di quei movimenti, era seguita l’affermazione di partiti-stato, e l’instaurazione di regimi basati sull’imprinting sovietico: stati governati dall’alto, senza controllo democratico, con una accentuata statalizzazione dei mezzi di produzione, con un abnorme sviluppo delle burocrazie e conseguente dilagare della corruzione. In questo contesto, i tentativi di liberalizzazione dell’economia hanno spesso incontrato ostacoli e barriere assai gravi e talora insormontabili.

Dal canto loro i paesi occidentali, per contrapporsi all’espansione dell’influenza sovietica, hanno preferito basarsi sui regimi esistenti, moderati e spesso reazionari, che garantivano però stabilità e controllo sociale, creando un ambiente propizio al business; invece che complicarsi la vita con improbabili tentativi di democratizzazione imposti dall’esterno, che solo durante la presidenza Bush furono perseguiti, con esiti peraltro fallimentari.

I decenni passati hanno comunque consentito uno sviluppo economico notevole, anche se questo ha prodotto una forte acutizzazione del divario sociale, con una larga parte della popolazione confinata ai margini della sopravvivenza economica.

D’altra parte, l’economia da sola non basta, deve fare i conti con la società e con le sue esigenze di crescita democratica e civile. Ciò è tanto più vero nel momento in cui il mondo è sempre più strettamente interconnesso, le notizie e gli esempi circolano in tempo reale, e la creazione di argini contro la loro diffusione risulta velleitaria e inefficace. Internet, Facebook, Twitter paiono essere stati gli strumenti attraverso cui si sono propagate la primavera araba e le idee che l’hanno nutrita.
Regimi “progressisti” e regimi “moderati” in qualche modo si sono retti l’un l’altro, per decenni, grazie ai loro protettori. Quando l’equilibrio bipolare è crollato, le dinamiche politiche e sociali si sono lentamente rimesse in moto. I movimenti islamici, contenuti e repressi duramente, sia dalle monarchie gelose del loro potere assoluto, sia dai regimi laici, sono riemersi, dopo decenni di immersione carsica.

Qualcosa del genere era già successo in Afghanistan, quando al regime filosovietico imposto dalle armate di Mosca era subentrato il regime dei talebani. Quello che è importante è che tutti i maggiori partiti islamici, in questi paesi, paiono richiamarsi all’esperienza dell’Akp di Recep Tayyip Erdogan, in Turchia, spesso riprendendo il suo nome, come in Egitto e in Marocco. Erdogan, nel suo trionfale viaggio in Tunisia Egitto e Libia dello scorso settembre, ha indicato la via di un modello islamico moderato, democratico e “laico”.

La sfida è stata raccolta, con qualche distinguo soprattutto dei Fratelli musulmani in Egitto, che di Erdogan si considerano un po’ i “fratelli maggiori”. Ma quello che occorre capire è se questa scelta è tattica o strategica, da parte di movimenti che guardano ai tempi lunghi, e che teorizzano la possibilità di fare compromessi a breve, pur di procedere verso il raggiungimento dell’obbiettivo finale, che resta quello della costruzione di uno stato islamico. Se la strada che finiranno per prendere è quella dei talebani, o quella di Erdogan.

Si tratta, naturalmente, di un dibattito e di uno scontro reale, anche al loro interno. E l’atteggiamento che prenderà l’Occidente al riguardo avrà un peso decisivo, per condizionarne o almeno influenzarne gli esiti. Così come un ruolo non secondario potranno avere gli sviluppi del contenzioso israelo-palestinese-arabo, che se non è stato al centro della primavera araba può ora divenire un elemento di agitazione e di mobilitazione per quelle popolazioni, deluse perché la loro vita quotidiana non migliora e le libertà democratiche non aumentano.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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