L’Editoriale

Le convergenze parallele di Obama e Netanyahu

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 26 maggio 2011

Si è molto letto, in questi giorni, di aspri scontri tra il Premier israeliano e il Presidente USA. Ma se si ripercorrono i testi dei discorsi pronunciati dai due leader, quelli di Netanyahu alla Knesset e poi di fronte alle sessioni riunite del Congresso USA, quelli di Obama del 19 maggio sul Medio Oriente e il Nord Africa e poi quello successivo all’AIPAC, la grande lobby USA pro- Israeliana, ci si accorge che le distanze sono meno inconciliabili di quanto sembrino, e che molte delle sottolineature sono più rivolte alle rispettive costituency elettorali, o al sistema di alleanze internazionali che si intende costruire, che alla sostanza delle cose.

Questo è vero soprattutto per quanto riguarda la contesa sul ritorno ai confini del ’67. Netanyahu, nell’incontro con la stampa avuto insieme al Presidente USA, subito dopo il loro incontro, si è opposto duramente ad ogni ipotesi di ritorno a quei confini, giudicati indifendibili. Così, si è posto rispetto alla sua opinione pubblica e alla sua stessa coalizione di governo come il fiero difensore della sicurezza di Israele, che non esita a fronteggiare lo stesso leader degli Stati Uniti per tutelare gli interessi del suo paese. Ma era stato egli stesso, nel suo discorso alla Knesset della scorsa settimana, a sottolineare l’esigenza di conservare i grandi blocchi degli insediamenti, lasciando intendere che quelli più remoti potevano essere abbandonati; e nel suo applaudito discorso al Congresso ha precisato ancora il concetto, affermando di riconoscere, anche se non era facile per lui, che una genuina pace richiederà di abbandonare parti della “ancestrale patria ebraica, in Giudea e Samaria”.

Dal canto suo, nell’intervento all’AIPAC, Obama ha chiarito che la formula di un “negoziato basato sui confini del ’67, con possibili scambi territoriali mutuamente concordati” significa, “per definizione, che le parti stesse, israeliani e palestinesi, dovranno negoziare un confine che è differente da quello che esisteva nel giugno ‘67”. Naturalmente, il problema sarà definire l’ampiezza di queste rettifiche territoriali, la quantità e la qualità delle aree scambiate.
Anche per quanto riguarda la presenza di truppe israeliane nella valle del Giordano, tra la permanenza “di lungo termine” richiesta dal leader israeliano, ed il ritiro graduale e per fasi ipotizzato da Obama la distanza non è incolmabile.

Accordo è stato espresso rispetto al necessario riconoscimento di Israele come Stato ebraico, così come sulla minaccia proveniente dall’Iran. Per quanto concerne Hamas, nel suo intervento all’AIPAC Obama si è speso di più, richiamando le tre richieste del Quartetto che nel suo precedente intervento aveva omesso di ricordare, anche se la richiesta ora avanzata è quella del “riconoscimento del diritto dello Stato ebraico ad esistere”, che è diversa da quella del semplice riconoscimento di Israele (le altre due condizioni sono la rinuncia alla violenza e il riconoscimento dei trattati pregressi).
Netta è stata altresì la condanna, da parte di Obama, del tentativo palestinese di arrivare al riconoscimento dello Stato palestinese alla prossima Assemblea Generale di settembre, con l’affermazione che l’unica via possibile è quella negoziale.

I due sono stati altresì prodighi di impegni e attestati reciproci, Obama nel ricordare il crescente impegno USA per la difesa di Israele, incluso il finanziamento del sistema antimissilistico Iron Dome, Netanyahu nel sottolineare il ruolo essenziale dell’alleato USA e l’appoggio di Obama ad Israele.
Rispetto a Gerusalemme e ai rifugiati, il Presidente USA ha proposto di rinviare tali questioni ad una seconda fase dei negoziati: e’ stato quindi facile per il Premier israeliano ribadire le sue posizioni tradizionali (Gerusalemme capitale unica e indivisibile di Israele, nessun rifugiato deve rientrare nello Stato ebraico) senza temere di pagare dazio.

Molto rumore per nulla, si potrebbe dire. Eppure, resta una persistente tensione, una mancanza di fiducia tra i due leader. Obama certo non ha apprezzato che l’invito a Netanyahu sia stato rivolto dal repubblicano John Boehner, speaker della Camera dei Rappresentanti, ed ha interpretato ciò come un nuovo tentativo di far leva sulle divisioni interne agli USA, per condizionare le scelte del Presidente degli Stati Uniti.

D’altro canto, dopo l’uccisione di Bin Laden le chances di rielezione di Obama si sono vertiginosamente accresciute, e se il leader israeliano poteva pensare a “resistere,resistere, resistere” ancora per un anno, in attesa di una futura vittoria repubblicana, ora probabilmente sara’ costretto a rifare i conti.
Quella che si sta giocando in questi giorni, in sostanza, è una complessa partita del gatto col topo, in cui non si sa bene chi fa il gatto e chi il topo.
Per conto loro, i palestinesi dell’ANP hanno incassato il riferimento ai “confini del ’67 con scambi territoriali concordati” come base del negoziato, che era la loro richiesta più pressante rivolta agli USA, sono intenti a negoziare con Hamas il prossimo governo transitorio composto da personalità indipendenti, e mantengono ferma la scelta di richiedere il riconoscimento del loro Stato alla prossima Assemblea dell’ONU: almeno fino a nuovo ordine.
Ognuno si sta posizionando in vista del nuovo mandato della Presidenza USA: se sarà confermato, Obama, libero da condizionamenti elettorali, potrà cominciare a tirare i fili del discorso iniziato due anni fa, con il discorso del Cairo.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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