L’Editoriale

Medio Oriente. La scelta di Obama

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 23 maggio 2011

Obama ha fatto sicuramente un discorso di grande respiro, scegliendo di stare dalla parte delle rivoluzioni democratiche arabe, o almeno di favorire l’autoriforma dei regimi al potere, se questo è ancora possibile. Questo scopo intende perseguirlo con un ampio spettro di strumenti, sia di carattere politico che di tipo economico, ivi incluso una sorta di nuovo piano Marshall a favore degli stati che scelgono la strada del rinnovamento, piano che dovrebbe essere sostenuto oltre che dagli USA dalle grandi organizzazioni economiche internazionali.

Questo approccio non renderà felici le monarchie del Golfo, a cominciare da quella saudita, che vedono incrinato il mutuo patto di assistenza su cui si è retto in questi decenni il rapporto con gli USA, disposti a chiudere tutti e due gli occhi sulla totale mancanza di democrazia e di rispetto dei diritti umani in tali paesi, in cambio di fedeltà e di sostegno strategico e militare.

Il Presidente USA ha evidentemente valutato che continuare a seguire la vecchia strada avrebbe finito per comportare costi ancora maggiori, insostenibili nel medio periodo.

In questo contesto, l’approccio al conflitto israelo-palestinese appare contemporaneamente più sommesso, più articolato e più determinato di quanto non fosse due anni fa, nel discorso al Cairo.

Sono del tutto assenti gli ultimatum sugli insediamenti, citati quasi di sfuggita. E si rifugge dalla passata retorica sulla esperienza umana del popolo palestinese. Ma la visione si fa più netta e determinata, più di lungo periodo, e anche più bilanciata.

I primi commenti hanno interpretato il discorso in maniera anche opposta, sia come un assist lanciato a Netanyahu per arginare l’iniziativa palestinese, sia come uno schiaffo in faccia al leader israeliano nel giorno del suo arrivo negli Stati Uniti.

In realtà, nelle parole di Obama si coglie l’eco delle lunghe, defatiganti, inutili spolette condotte dall’Inviato Speciale per il Medio Oriente, George Mitchell, che proprio in questi giorni ha dato le dimissioni dall’incarico, gettando la spugna. “La mia Amministrazione, afferma il Presidente USA, ha lavorato per due anni insieme alla Comunità Internazionale alla soluzione del conflitto, ma le aspettative sono rimaste deluse”.

Ad ognuno dei contendenti va la sua responsabilità: gli israeliani hanno continuato gli insediamenti, i palestinesi hanno abbandonato il negoziato.
Ai palestinesi, cui riconferma il pieno sostegno per la creazione di uno Stato palestinese, egli dice che ogni tentativo di delegittimare Israele (incluse le azioni simboliche alla Assemblea delle Nazioni Unite in settembre), è destinato al fallimento.

Per quanto riguarda l’accordo Fatah – Hamas, l’atteggiamento è cauto: vengono considerate legittime le preoccupazioni di Israele sulle possibilità di negoziare con chi si rifiuta di riconoscerlo, e si sottolinea il rischio che i palestinesi non raggiungano i loro scopi se Hamas insiste sulla via del terrorismo e del rifiuto. Ma non vengono menzionate o riproposte come pregiudiziali le tre condizioni del Quartetto (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza, riconoscimento dei trattati pregressi): pare che la scelta sia quella di una verifica sul terreno della composizione e della condotta del nuovo governo previsto dall’accordo.
Per quanto riguarda Israele, vi sono due aperture significative, oltre alla ribadita conferma del carattere inscindibile della alleanza tra Israele e USA: la necessità che Israele sia riconosciuto come “uno Stato ebraico e come patria per il popolo ebraico”, e la necessità di garantire la sua sicurezza, anche attraverso un “ritiro pieno e realizzato per fasi delle forze militari israeliane, che dovrà essere coordinato con l’assunzione di responsabilità delle forze di sicurezza palestinesi in uno Stato sovrano e demilitarizzato”. Si adombra, qui, la possibilità di una transizione anche non breve che possa prevedere la presenza di forze israeliane lungo la Valle del Giordano.

Ma l’elemento di novità è l’indicazione di un parametro per i “confini tra i due stati, che dovranno essere basati su quelli precedenti il ’67, con possibili scambi territoriali mutuamente concordati”.

Questo è quanto aveva chiesto insistentemente il Presidente palestinese Mahmud Abbas, per tornare al tavolo del negoziato. Ma questo è il punto dolente per Netanyahu, che ha già espresso l’indisponibilità ad accettare il ritorno a quei confini dichiarati indifendibili. Ma appunto la proposta è quella di “possibili scambi territoriali concordati”, come era stato già previsto anche nella famosa lettera di Bush a Sharon del 2004, in sui si garantiva il sostegno al mantenimento dei grandi insediamenti vicini a Gerusalemme, ma proprio sulla base di “scambi concordati.

Dopo la prima reazione di rifiuto, si tratta ora di vedere come il Premier israeliano intende gestire la cosa, se facendo leva sulla maggioranza repubblicana che lo ha invitato a pronunciare un discorso a Camere riunite martedì prossimo, puntando sulla futura mancata rielezione di Obama: una strada rischiosa, dato il vistoso recupero di consensi del Presidente USA dopo l’eliminazione di Osama Bin Laden. Oppure cercare la via del compromesso, puntando sul mantenimento dei grandi insediamenti, come è sembrato da alcuni passaggi del suo intervento alla Knesset, dei giorni scorsi.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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