L’Editoriale

Destini incrociati in Medio Oriente

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 31 agosto 2011

Il regime di Gheddafi è caduto, anche se si annuncia una transizione forse più difficile di quella irachena. Ma è in tutto il Medio Oriente che è in atto un rivolgimento profondo, i cui esiti sono in larga parte imperscrutabili.

Viene a mente il Castello dei destini incrociati di Italo Calvino, dove i protagonisti raccontano le loro storie che si intersecano utilizzando i tarocchi, dato che non sono più in grado di utilizzare la voce. Anche laggiù troppo spesso le parole non riescono più a farsi ascoltare, esprimono solo posizioni di principio, non più corrispondenti alla realtà.

Così il presidente siriano Assad parla di volontà di riforme e di pluripartitismo, mentre continuano i massacri quotidiani, che si irraggiano metodicamente in tutto il paese, facendo migliaia di morti e feriti.

Netanyahu ripete ogni giorno che vuole trattare, ed intanto autorizza centinaia di nuove costruzioni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Il leader israeliano si trova in queste settimane di fronte alla contestazione di massa dei giovani, per lo più appartenenti al ceto medio, che chiedono alloggi a prezzi più bassi e una migliore qualità della vita. Eppure quel movimento, che costituisce un fattore nuovo e dirompente nel panorama politico israeliano, stenta a collegare le proprie richieste di riforma economica con la persistenza dell’occupazione, che assorbe imponenti risorse finanziarie per la sicurezza e gli insediamenti.

Così di difficile interpretazione appare il sanguinoso attentato avvenuto ai confini con l’Egitto, proprio nei giorni in cui si stava riavviando positivamente il negoziato per il rilascio del soldato israeliano Shalit, in cambio di un forte numero di prigionieri palestinesi. Hamas ha appoggiato l’attacco, ma non l’ha rivendicato. A compierlo è stata probabilmente una strana mistura di gruppi estremisti, i Comitati Rivoluzionari Palestinesi, insieme a componenti salafite e beduine, che hanno operato sui due lati del confine, utilizzando l’allentamento dei controlli sul Sinai dopo la caduta di Mubarak.

L’attacco ha innestato altresì una grave crisi diplomatica con l’Egitto, per l’uccisione di tre soldati avvenuta durante l’inseguimento dei terroristi, nonché una ripresa dei lanci di missili e razzi sulle città a sud di Israele. Le cose stanno gradualmente placandosi, ma la situazione resta pesante.
D’altronde, Hamas non ha interesse a tendere troppo la situazione, ora che si trova a fronteggiare una grave crisi con la leadership di Damasco, ove risiede lo stesso Presidente del gruppo, Meshal. La rivolta in Siria è espressione della maggioranza del paese, che è sunnita, ed in essa molto forte è il ruolo dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas rappresenta una costola derivata dal ramo egiziano. Quei Fratelli Musulmani massacrati nel 1982 a decine e di migliaia a Homa dal padre di Bashar, Hafez Assad, di cui il figlio in questi mesi ha cercato di seguire le orme.
Si parla di un possibile trasferimento del gruppo in Egitto o in uno dei paesi del Golfo, ma per ora tutto resta fermo. La crisi di Hamas appare anche finanziaria, dato che l’Iran avrebbe sospeso i finanziamenti per il mancato  o insufficiente appoggio ad Assad.
Tuttavia, in una prospettiva più lunga, se il regime espressione della minoranza alawita degli Assad dovesse cadere, come appare più probabile oggi dopo la sconfitta di Gheddafi, e se in Egitto alle prossime elezioni di fine anno la Fratellanza Musulmana dovesse cogliere una affermazione importante e magari entrare a far parte del governo, la condizione di Hamas si farebbe molto più solida, saldando i rapporti con i due paesi chiave del mondo arabo.

Sull’altro versante palestinese, Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese stanno portando avanti la loro campagna per ottenere il riconoscimento dello Stato Palestinese dall’ONU, in occasione della Assemblea Generale del 20 settembre. Ma la minaccia di Obama di ricorrere al veto in sede di Consiglio di Sicurezza, e ancora di più l’annunciato taglio dei finanziamenti se l’iniziativa va avanti, votato dalle Camere USA, non li fa stare tranquilli: il Presidente Mahmoud Abbas ha ripetutamente dichiarato di preferire l’opzione negoziale, ma quella che manca è proprio una proposta da parte israeliana. Così la richiesta di riconoscimento procede, un po’ ritualmente. Resta a dire della Turchia, il cui crescente ruolo regionale, sviluppato attraverso la “Politica di prossimità” anzitutto verso la vicina Siria e l’Iran, ha subito un duro colpo dagli sviluppi drammatici in corso a Damasco e in tutto il paese, con le migliaia di profughi che si sono riversate nel paese attraverso le sensitive aree curde. A nulla sono valsi gli appelli di Erdogan a sospendere i massacri e fare le riforme, e lo stesso ultimatum portato ad Assad dal Ministro degli Esteri Davutoglu. Ovviamente, il peggioramento delle relazioni con la Siria incide anche su quelle con l’Iran, che è rimasto l’unico a sostenere il regime di Damasco. Di qui un problema di necessario riallineamento di Ankara, che ha cercato di recuperare i rapporti con Israele, compromessi dall’incidente della “Navi Marmara” durante l’attacco alla Flotilla diretta a Gaza, che causò numerosi morti tra i partecipanti turchi. Ma Netanyahu rifiuta di presentare le scuse richieste, malgrado i pressanti consigli USA.

Come si vede, un intreccio complesso che può apparire a volte statico e senza sviluppi: forse bisognerebbe rivolgersi ai tarocchi di Calvino, che potrebbero dare qualche indicazione più sicura.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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