L’Editoriale

Egitto. L’ippopotamo e la Fratellanza

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 29 novembre 2011

Le forze armate egiziane ricordano un po’ un ippopotamo, immerso nell’acqua. Se ne vedono solo gli occhi e il naso per respirare. Solo di rado risale gli argini, per cibarsi della vegetazione di cui è ghiotto. Sul dorso gli si posano esili uccelli.

Questi beccano i suoi parassiti, e a volte sono preda dei coccodrilli, che li afferrano balzando fuori dall’acqua. Così sono caduti i diversi governi, messi in piedi dopo la rivoluzione iniziata il 21 gennaio 2011, e capeggiati da Ahmed Shafiq a Essam Sharaf. E ora è il turno di Kamal Ganzouri, il vecchio premier dell’epoca di Mubarak, incaricato pochi giorni fa di formare un nuovo esecutivo. Sono stati costoro ad attirare la collera popolare, mentre l’esercito cercava di stare in seconda linea. In fondo, anche Mubarak era emanazione dell’esercito, che non ha esitato a sacrificarlo quando il regime minacciava di crollare.
Anche se nelle ultime settimane è stata la giunta militare stessa al centro delle contestazioni, per la pretesa dell’esercito di conservare tutte le sue prerogative anche dopo le elezioni e la redazione di una costituzione.

In questo, giocano diversi fattori: le forze armate controllano larga parte della società, a cominciare dall’economia, di cui possiedono direttamente il 15-20 per cento, ma attraverso le diverse connessioni e ramificazioni ne influenzano una quota di gran lunga più ampia. Si tratta di un potere opaco, non soggetto a controlli esterni, a cui la casta militare non intende rinunciare.

Malgrado i dimostranti di piazza Tahrir, quel potere rappresenta ancora una garanzia di stabilità, e come tale è percepito dall’opinione pubblica, stanca dei disordini e spaventata per la sempre più grave crisi economica.

Gli esponenti dell’area laica e democratica, a cominciare dal premio Nobel ElBaradei, sono largamente presenti sui media, ma non hanno collegamenti di massa nella popolazione, soprattutto nelle campagne.

Essi riescono a contare se si alleano con i Fratelli musulmani. Ma costoro fanno il loro gioco, e puntano a incassare la vincita che tutti i pronostici attribuiscono loro, nelle elezioni legislative cominciate ieri, per poi contrattare da posizioni di forza la spartizione del potere e dei rispettivi ruoli con l’esercito.
Un accordo non dovrebbe essere impossibile, come si è già verificato per il referendum costituzionale dello scorso marzo e ancora nei giorni scorsi, con il ritiro del movimento da piazza Tahrir, dopo un incontro con la giunta militare, in cambio del mantenimento della data prevista per le elezioni, e della convocazione delle elezioni presidenziali con il successivo passaggio dei poteri per fine giugno 2012.

In realtà, la Fratellanza musulmana è pronta a fare compromessi in termini di democrazia e di spartizione del potere, pur di ottenere che venga garantito il rispetto dei precetti coranici nelle nuove istituzioni in via di costruzione. I movimenti musulmani, ovunque, puntano sul lungo periodo, e non sull’immediato.
Ed anche l’esercito è probabilmente disposto a mettere un po’ d’acqua nell’eredità del laicismo nasseriano pur di conservare la parte essenziale della sua presa sulla intera società con i connessi privilegi. Resta da analizzare cosa significhi questa crescente affermazione dei movimenti islamici in tutto il Mediterraneo, come nota Alberto Negri su Il Sole 24-Ore. Alla vittoria di Ennahda in Tunisia, si è aggiunto in Marocco il risultato del Partito islamico per la giustizia e lo sviluppo (Pjd), ed ora si profila quello egiziano. Anche a Gaza, Hamas è uscito più che rafforzato dal recente scambio di oltre mille prigionieri palestinesi con il soldato israeliano Shalit. In Giordania, il movimento islamico si configura oramai come forte contropotere alla monarchia. Nella stessa Siria, sono i Fratelli musulmani, eredi della sanguinosa repressione subita a Homa negli anni novanta, a guidare la rivolta contro Bashar al Assad, ed un ruolo ugualmente rilevante lo hanno giocato nello Yemen, per arrivare alla sanguinosa deposizione del premier Saleh.

In Turchia, il Partito della giustizia e dello sviluppo, guidato da Erdogan, si è affermato oramai internazionalmente come un caso inedito di success story islamica, e tende a porsi come modello di democrazia islamica per tutta l’area.

Gli stessi Stati Uniti guardano oramai con interesse (e non esitano a incontrarne gli esponenti) a questo “arco sunnita”, come potenziale contraltare al più pericoloso “arco sciita” a guida iraniana. Si tratta di un processo non lineare, il cui esito finale in senso democratico non è oggi prevedibile.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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