L’Editoriale

Cosa rischia la nuova Libia

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 24 ottobre 2011

L’uccisione sommaria di Gheddafi lascia una luce cupa sulla nuova Libia che si annuncia. Le versioni ufficiali e ufficiose si accavallano, ma il risultato sembra essere il combinato disposto del lavoro dei servizi segreti francesi e inglesi con l’intreccio dei diversi interessi, non solo locali, a che il Rais non arrivasse vivo al processo e non fosse in grado di rivelare segreti anche spinosi. Il tutto con la copertura del provvidenziale ombrello dei caccia della NATO, che non certo casualmente hanno bombardato la colonna del leader fuggiasco. Chi muore giace e chi vive si dà pace.

Il  futuro non si annuncia certo tranquillo. Per dirla con le parole del Presidente russo Medvedev, “speriamo che ci sia la pace in Libia e che tutti coloro che stanno governando lo Stato, i diversi rappresentanti delle tribù libiche, raggiungano un accordo finale sulla configurazione del potere”. Il Presidente ha altresì auspicato che essa “diventi un moderno Stato democratico” (da quale pulpito, verrebbe da dire…).

Il problema da lui posto è certamente quello centrale. Il caso libico differisce profondamente da quelli dell’Egitto o della Tunisia, dove esiste una tradizione statuale e l’esercito costituisce una istituzione forte, rispettata e in larga misura autonoma. In Libia Gheddafi aveva sempre evitato di costruire stabili istituzioni pubbliche, che avrebbero potuto fargli ombra, e lo stesso esercito era sottoposto al suo potere e ai suoi capricci. Egli d’altronde per i suoi scopi preferiva servirsi di milizie per lo più mercenarie. Il tutto in nome di un indistinto potere del popolo, di un regime delle masse (Jamahiriya), che attraverso le assemblee locali (forse una lontana eco dei soviet bolscevichi) gli garantiva il controllo pressoché totale e insindacabile sul paese.

L’unico elemento di contropotere reale era costituito dalle tribù, e questo rendeva necessario al leader un complesso lavorio di equilibrio, di costruzione di alleanze, di contenimento dei potenziali avversari. Le tribù hanno quindi rappresentato quasi l’unico elemento di bilanciamento del potere, ed ora che sono venuti meno il ruolo e il controllo unificante del Rais, sarà molto difficile metterle d’accordo e farle lavorare insieme, come già si è abbondantemente visto in tutti questi mesi di guerra civile. Se non ci si riuscirà, e le potenze alleate dovranno gettare sul piatto tutto il loro peso per arrivarci, la Libia rischia di diventare uno “Stato fallito”, uno di quei casi di “Tribes with flags” di cui parla Thomas Friedman. Non è da sottovalutare per altro la forza delle componenti islamiche e islamiste che potrebbero influenzare fortemente la fase post bellica.

La caduta di Gheddafi produrrà un effetto domino negli altri paesi arabi, a cominciare dalla Siria e dallo Yemen? Certo i due presidenti al centro delle contestazioni, Assad e Saleh, si sentiranno più incalzati, e le masse in rivolta trarranno nuova spinta dalla vittoria degli insorti libici. Ma il contesto è molto differente: manca una coalizione di potenze alleate che possa gettare il suo peso sulla bilancia delle forze in campo: è d’altronde improbabile una risoluzione in tal senso del Consiglio di Sicurezza, bloccato dai veti della Cina e della Russia (grande protettrice del regime siriano); ma a frenare ogni velleità interventista vi è soprattutto il timore che la maggioranza sunnita, guidata dalla Fratellanza Musulmana, possa prendere il potere a Damasco, e che quella sciita, legata all’Iran, possa andare al governo nello Yemen (dove tuttavia la posizione di Saleh, reduce dall’Arabia Saudita dove è andato a curarsi per un grave attentato, pare sempre più precaria).
Quanto alle potenze alleate, la parte del leone la fa la Francia, in stretta alleanza con la Gran Bretagna. Se questo significa che sarà essa a rappresentare l’azionista di controllo nella fase post-bellica, e nei relativi dividendi, è forse prematuro affermarlo, e l’ENI  eserciterà di sicuro una attenta azione di vigilanza a protezione dei suoi interessi.

Anche Obama ha visto premiato il suo approccio multilaterale e volto a responsabilizzare la Nato e gli alleati europei: con un miliardo di dollari e senza vittime americane ha risolto il problema (niente se si pensa agli enormi sacrifici richiesti dall’Iraq e dall’Afghanistan),  aggiungendo così lo scalpo di Gheddafi a quello ancora recente di Bin Laden.

Quanto all’Italia, ha dato un contributo significativo con le sue basi, i suoi aerei e le sue navi, in una guerra in cui è stata trascinata contro voglia e solo per presidiare le sue posizioni economiche. Un contributo tuttavia che è stato messo in ombra dai grossolani errori, non solo di immagine, fatti nei rapporti con Gheddafi, dal catastrofico baciamano di Berlusconi, alle lezioni sull’Islam impartite dal Rais ad hostess affittate ad hoc, alla “paura di disturbarlo” espressa sempre dal nostro Premier nei primi sanguinosi giorni della rivolta. L’immagine, la “dignity” nel mondo arabo è tutto, e la nostra sarà difficile ricostruirla.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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