L’Editoriale 

La visita di Napolitano in Israele

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:  25 novembre 2008

Il Presidente Napolitano oggi torna in Israele ventidue anni dopo la sua prima visita, svoltasi nell’86. Chi scrive partecipò a quella missione, e contribuì a organizzarla. Essa rappresentò certamente un salto di qualità nel rapporto tra sinistra italiana, ed in particolare il PCI di allora, ed Israele: un rapporto che si era lacerato dopo la Guerra di sei giorni, e che solamente un paziente lavoro di ricucitura, ed anche una chiara battaglia politica verso residue soggezioni a unilateralistiche logiche di campo consentirono di superare.

L’apertura ad Israele del PCI (di cui Napolitano era allora il responsabile internazionale) rappresentò un messaggio di svolta, rivolto anche all’ebraismo italiano, ma sicuramente esso guardava agli Stati Uniti, presso cui egli stava svolgendo un paziente lavoro di accreditamento, ed anche alla Unione Sovietica, verso cui egli stesso fece pressioni, riuscendo a ottenere da Mosca una dichiarazione di attenzione alle esigenze di sicurezza dello Stato ebraico, nei limiti del rispetto delle esigenze nazionali palestinesi. Questo per dire che da quella visita scaturì un paziente lavoro di tessitura diplomatica, volto a superare i muri di incomunicabilità creati dal conflitto.

Ma vi fu un altro elemento che su cui si concentrò la riflessione, la questione del sionismo. La parola non aveva ancora corso libero nel PCI, e su questo il leader comunista era ancora prudente: ricordo una sera, trascorsa in un Kibbutz con tutta la leadership del MAPAM (il partito della sinistra socialista poi confluito nel Meretz), in cui la discussione si concentrò proprio sul sionismo, che gli israeliani chiedevano di riconoscere come legittimo movimento di liberazione nazionale. Quella sera Napolitano fu cauto: “ci abbiamo messo tanto – interloquì a un certo punto – a superare il marxismo-leninismo con il trattino, ed ora voi ci chiedete di adottare marxismo-sionismo”.

Ma quella discussione lasciò il lui tracce profonde, e se ne trova l’eco in quella dichiarazione del 29 gennaio 2007,  nel giornata della memoria, in cui egli affermò che era necessario combattere ogni forma di antisemitismo, “anche quando esso si travesta da antisionismo perché significa negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele”. Ed ancora ieri, nella intervista al Corriere della Sera, egli tornava sulla questione, affermando che “il movimento sionista si ispirò in non piccola parte al pensiero di Giuseppe Mazzini, a una visione universalista delle aspirazioni all’indipendenza nazionale dei nostri popoli, di tutti i popoli”.

Un altro suo aspetto caratterizzante è la convinzione che essere amici di Israele non significa essere meno amici della parte palestinese: la battaglia per il riconoscimento del diritto all’esistenza e alla sicurezza dello Stato di Israele va di pari passo con quella per la costruzione di uno Stato palestinese. I due aspetti non configgono, ma si rafforzano vicendevolmente. L’uno non può essere raggiunto senza l’altro.

Quello di Napolitano è infine uno sguardo laico, non offuscato da pregiudizi ideologici, un approccio estremamente realistico. E certamente egli si sarà posto, in questi giorni della visita, il problema di cosa resti oggi del sionismo, e di quanto il processo accelerato di colonizzazione dei territori palestinesi abbia potuto deteriorare quel progetto.

La situazione politica che oggi troverà a Gerusalemme il nostro Presidente è densa di incognite: il processo diplomatico avviato un anno fa ad Annapolis non è arrivato a conclusione, anche per le dimissioni anticipate di Olmert in seguito agli scandali in cui era coinvolto, e le prossime elezioni anticipate non promettono molto di buono: secondo gli ultimi sondaggi, Netanyahu, il leader del Likud, avrebbe un netto vantaggio di oltre sei seggi sulla Livni, leader di Kadima, e il centro destra sarebbe in netto vantaggio sul centro sinistra, anche includendo in esso i partiti arabi.

Naturalmente, l’elezione di Obama può influenzare positivamente l’elettorato, ma il suo insediamento, il prossimo 20 gennaio, avverrà troppo a ridosso delle elezioni del 10 febbraio, e sarà difficile che il suo nuovo approccio, molto più realistico e scevro dagli apriorismi ideologici del suo precedessore, possa già dispiegare i suoi effetti.

E’ probabile che i nuovi governanti israeliani siano chiamati a scelte assai difficili: è nota l’attenzione che il nuovo Presidente USA porta al Piano arabo del 2002, che postula la restituzione dei territori occupati nel ’67, la creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est, ed una soluzione “equa e concordata” del problema dei rifugiati, in cambio del riconoscimento e della pace con tutti gli Stati arabi. I margini di manovra potrebbero perciò decisamente restringersi: ma anche per questo gli elettori israeliani potrebbero preferire un negoziatore duro, proprio come Netanyahu.

Di tutto questo Napolitano discuterà certamente a fondo e senza autocensure, come solo un vero amico può fare.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

Leggi tutti gli EDITORIALI