L’Editoriale 

L’equazione Hamas

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:29 dicembre 2008

L’impressione generale è che lo Stato ebraico sia stato indotto all’offensiva in atto da una consapevole scelta di Hamas, che ha dichiarato decaduta la tregua stipulata sei mesi fa grazie alla mediazione egiziana (anche se la prima violazione era avvenuta da parte israeliana alcuni giorni prima della scadenza del 20 dicembre, con il bombardamento di un tunnel in costruzione, che aveva ucciso tre militanti palestinesi). L’organizzazione islamica (che forse aveva sottovalutato l’efficacia della possibile reazione israeliana), nell’ultima settimana ha lanciato sulle città israeliane di confine oltre trecento razzi e missili di varia portata, fino ad una distanza di circa 50 chilometri. Nell’ultimo anno, il totale dei razzi lanciati su Israele supera i 3000, anche se in generale essi sono piombati in aperta campagna, provocando più che altro molta paura, con pochi danni e poche vittime, contrariamente ai bombardamenti israeliani di questi giorni.

E’ evidente tuttavia che il Governo di Gerusalemme non poteva reggere a lungo una situazione del genere, anche in vista delle prossime elezioni politiche del 10 febbraio: i leader di Kadima e del Likud avevano ripetutamente attaccato il Ministro della Difesa e leader del Labour, Ehud Barak, per la sua inazione, affermando che la situazione si era fatta intollerabile.

Ma Barak ha preferito preparare con calma la sua offensiva, utilizzando a fondo i sei mesi della tregua e selezionando accuratamente i suoi obbiettivi, anche attraverso una approfondita azione di intelligence, in modo da sorprendere per quanto possibile Hamas, infliggendogli il colpo più doloroso. I morti si avvicinano, nel momento in cui scriviamo, ai 300, e tra di loro molte sono certamente le vittime civili, per quanto accurata sia stata la scelta dei bersagli, spesso situati nelle zone più popolate: è quindi praticamente impossibile evitare, per usare l’angosciante eufemismo israeliano, “danni collaterali”.

Hamas ha naturalmente minacciato ritorsioni, e la ripresa degli attentati suicidi, chiamando i palestinesi alla “terza intifada”.

Intanto truppe e mezzi corazzati israeliani sono ammassati sul confine, non si capisce se per esercitare una pressione psicologica o per preannunciare una prossima operazione di terra, tesa a ripulire la fascia di confine da cui sono lanciati i razzi: ma si dovrebbe trattare in ogni caso, probabilmente, di una operazione limitata nel tempo. Tutto vuole Israele salvo che ritrovarsi di nuovo impantanato in una situazione simile a quella dell’ultima guerra in Libano. Proprio quella esperienza ha dimostrato d’altronde che, limitandosi ad attacchi dall’aria, non si riesce a bloccare il lancio di missili contro Israele, ma anche che una azione di terra di portata limitata avrebbe solo effetti temporanei: una volta ritirate le truppe israeliane le rampe di lancio sarebbero rapidamente ripristinate.

Lo stesso obbiettivo, annunciato da alcuni dei leader ebraici, di arrivare a cancellare il controllo di Hamas su Gaza, abbattendone il Governo, appare non molto credibile: gli israeliani non vogliono arrivare ad una rioccupazione permanente della Striscia, che causerebbe loro forti perdite e costi altissimi, finendo per addossare loro la responsabilità civile del milione e mezzo di abitanti palestinesi. E d’altra parte sarebbe arduo, anche per Abu Mazen, arrivare a ripristinare la sua autorità sulla Striscia al seguito dell’esercito occupante.

Qui sta il punto: quali sono gli scopi effettivi che l’offensiva si propone, al di là della volontà di bloccare il lancio dei razzi, impartendo una lezione alle organizzazioni islamiche e ai militanti che li lanciano, e restituire pace e sicurezza alla parte meridionale del paese?

Quello che Hamas voleva, con la scelta di mettere sotto pressione Israele, è chiaro: ripristinare la tregua a condizioni più vantaggiose, garantendo una apertura dei valichi di frontiera meno aleatoria, in grado di assicurare il rifornimento costante della Striscia e della sua popolazione oramai esausta; concludere la trattativa per la liberazione del soldato israeliano Shalit, con il rilascio di un forte numero di prigionieri palestinesi, scelti tra i più rappresentativi; estendere la tregua anche alla Cisgiordania, dove i suoi militanti sono sotto la doppia pressione di Israele e delle forze di sicurezza dell’ANP. Si tratta, va detto, di punti già presenti nell’accordo di giugno, e di cui solo il primo  era stata parzialmente implementato.

Più in generale, la organizzazione islamica si proponeva di tornare al centro dell’attenzione araba e internazionale (e vi è riuscita in pieno grazie alle scene angosciose da Gaza, trasmesse dalle TV di tutto il mondo ed in particolare dai grandi network arabi); e di indebolire ulteriormente Al Fatah, dipingendo Abu Mazen come un traditore connivente con il nemico. Non sono stati risparmiati neanche attacchi al Governo egiziano e allo stesso Mubarak, reo di aver ricevuto nei giorni precedenti il Ministro degli Esteri Tzipi Livni, senza protestare per le sue dichiarazioni che preannunciavano l’attacco.

Ma Israele, cosa vuole davvero? Finito l’effetto iniziale dell’attacco, sarà necessario tornare a discutere di come rinnovare la tregua, e a quali condizioni: ora che entrambi hanno mostrato i muscoli, possono sedersi al tavolo della trattativa (se pur indiretta, attraverso la rinnovata mediazione egiziana) senza fare la figura del perdente. Un rituale che naturalmente non tiene conto del costo in vite umane, feriti e danni ingenti, e della enorme angoscia che tutto questo rituale di guerra ha causato nelle due popolazioni.

Probabilmente, si renderà necessario anche un intervento internazionale: già il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è pronunciato, pur senza la necessaria forza, per una sospensione di tutte le attività militari, ed è probabile che nei prossimi giorni l’intervento si faccia più incisivo.

Anche l’Europa deve far sentire di più la sua voce, e sia Bush che Obama possono esercitare la loro influenza moderatrice su Israele, così come gli Stati arabi moderati, a partire dall’Egitto e l’Arabia Saudita, su Hamas.

La condizione essenziale perché si torni alla tregua è che alla popolazione civile di Gaza venga assicurato un flusso costante di rifornimenti, riaprendo i valichi: su questo Hamas può difficilmente cedere. Lo stesso scambio tra Shalit e i prigionieri palestinesi tornerebbe in quel caso nuovamente perseguibile.

Potrebbe probabilmente essere invece rinviata ad una fase successiva l’estensione della tregua alla Cisgiordania, che Israele non vuole concedere perché teme che così l’organizzazione islamica possa rafforzarsi troppo, a scapito della vacillante autorità dell’ANP.

La riapertura dei valichi potrebbe d’altronde comportare, in prospettiva, una rinnovata e rafforzata presenza internazionale alle frontiere, dopo la troppo limitata esperienza delle forze EUBAM.

Non si può nascondere che il ripristino e il consolidamento della tregua comporterebbero un sostanziale rafforzamento di Hamas, rappresentando un riconoscimento di fatto del suo controllo su Gaza e della sua capacità di tenuta rispetto al lungo assedio internazionale e israeliano cui è stato sottoposto. Fattori questi già presenti nell’accordo di sei mesi fa, e che verrebbero ora ulteriormente sanciti e stabilizzati, indebolendo ulteriormente Abu Mazen e l’ANP. Questa è d’altronde la realtà delle cose, e non si può ignorarla più a lungo.

Più in generale, la possibilità di un rilancio del processo negoziale israelo-palestinese, cui può puntare il neo Presidente Obama dopo il suo insediamento a fine gennaio, non potrà prescindere dalla consapevolezza che i palestinesi non possono essere rappresentati esclusivamente da Al Fatah, e che il coinvolgimento di Hamas, anche in maniera indiretta, si rende indispensabile, se non si vuole che i possibili accordi da raggiungere, con tutti i sacrifici che essi comporteranno per Israele, siano scritti sulla sabbia, e vengano rimessi in discussione il giorno dopo la loro firma.

Ciò richiede da parte della Comunità internazionale e dello stesso Israele una azione volta a favorire, e non a scoraggiare come in tutti questi anni, il raggiungimento di un nuovo accordo interpalestinese, senza dimenticare il versante siriano, che non può certo essere trascurato se la pace la si vuole fare davvero. Un approccio inclusivo, e non esclusivo e basato su prevalenti pregiudiziali ideologiche quale è quello che ha caratterizzato la presidenza Bush.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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