L’Editoriale 

Israele. Lo specchio dell’altro

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:  8 maggio 2008

Quel che si temeva sta accadendo. L’invito rivolto ad Israele come ospite d’onore della Fiera del Libro di Torino ha dato la stura alla solita paccottiglia di attacchi a Israele, definito da Tariq Ramadan come Stato assassino, ed anche alla solita serie di difese di ufficio.

Schierarsi contro ogni proposta di boicottaggio, e di delegittimazione e demonizzazione dello Stato ebraico, e dello stesso sionismo come legittimo movimento nazionale del popolo ebraico, pare comunque necessario, ma non è sufficiente, e non esclude, come ha autorevolmente ricordato il Presidente Napolitano, la assoluta legittimità della critica alle politiche del governo israeliano, come avviene innanzitutto all’interno di Israele.

Chi scrive aveva provato insieme ad altri amici, nei mesi scorsi, a delineare un percorso diverso, rispetto a quello che si è voluto seguire: “proprio perché l’invito cade nel 60° della fondazione di questo Stato- si sosteneva – non si può ignorare o comunque dare per scontata la complessità dei problemi politici, culturali e identitari con cui esso oggi deve misurarsi. All’inizio di gennaio, il suo Premier, Olmert ha dichiarato, in una intervista al Jerusalem Post: “Se la soluzione dei due Stati non è realizzata – e Israele dovrà confrontarsi con la realtà di uno Stato per due popoli – questo potrebbe portare alla fine dell’esistenza di Israele come Stato ebraico. Questo è un pericolo che non si può negare; esso esiste, ed è anche realistico…”. Se questo è l’ordine dei problemi, non ci si può limitare a un approccio meramente celebrativo, ma è necessario fare uno sforzo in diverse direzioni, con una visione aperta e critica… “

Questa concezione, che pure aveva avuto una larga eco ed era stato sostenuto anche da autorevoli esponenti della Comunità ebraica torinese, non è stato accolta dalla Fiera del Libro, che ha preferito un approccio sostanzialmente occasionale e subordinato, rincorrendo chiunque si alzasse a dire la sua (tipica la proposta di dare uno stand anche ai palestinesi, quasi la stanza della servitù nella villa padronale).

Ma il guasto ha ora rimesso in circolo le posizioni più arcaiche, come si è visto dal convegno di questi giorni sulla “Pulizia etnica della Palestina”, in cui si è arrivati a affermare, a proposito di scrittori come Amos Oz, Grossman e Yehoshua, che essi “sono considerati, completamente a torto, dall’opinione pubblica europea, tre scrittori “pacifisti” doc”. Basta ripensare al discorso di Grossman dopo la morte del figlio, alla fine dell’ultima guerra in Libano, per indignarsi di fronte ad affermazioni come questa.

Bisogna essere consapevoli che il processo innescato dalle ultime elezioni, che ha privato di rappresentanza parlamentare l’estrema sinistra, rischia di acuire ed estendere tali processi di radicalizzazione, facilitando la creazione di corti circuiti pericolosi e anche potenzialmente eversivi.

Ma lo stesso senso di asfissia lo dà l’elenco rituale delle ragioni di Israele e sui torti degli arabi e dei palestinesi: il rifiuto arabo, le guerre del 48 e del 67, le responsabilità del terrorismo, l’incapacità di scegliere di Arafat. Tutte cose giuste, certamente. Ma non bastano più.

Affermare i diritti dei vincitori non può far dimenticare il dolore e le ragioni dei vinti, la tragedia della Naqba e dell’esilio, i diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione e a un loro Stato viabile, la necessità vitale per Israele, pena la sua stessa sopravvivenza come Stato ebraico, di ricercare la pace con tutti gli Stati vicini, sulla base del Piano arabo del 2002, e di garantire i diritti della sua minoranza araba.

I migliori storici israeliani, come Benny Morris o più recentemente Shlomo Ben Ami, hanno lavorato in profondità su questi aspetti, e vi sono gruppi di storici israeliani e palestinesi che stanno lavorando insieme, sulla ricostruzione della storia parallela dei due popoli.

Altro aspetto essenziale è la lotta comune contro i processi di disumanizzazione del conflitto. Non si tratta di negarlo, il conflitto, ma di contrastare l’insorgere e l’espandersi delle tendenze più bestiali, che negando l’umanità del nemico finiscono per disumanizzare anche chi quegli stessi atti disumani compie.

Vediamo quanto oggi sia difficile portare avanti il negoziato dopo Annapolis, quanto forti siano le resistenze interne, a cominciare dagli stessi apparati militari, che fanno ostruzionismo di fronte ad ogni blocco stradale da rimuovere. Le diplomazie da sole non ce la fanno, vi è bisogno delle società civili.

Per questo, proprio a Torino, il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, insieme all’Istituto Salvemini, ha costruito un importante percorso di pace che si snoderà lungo tutto l’anno, con il sostegno della Regione Piemonte, della Fondazione San Paolo e della locale Camera di Commercio: Si terranno seminari, incontri pubblici, creazione di una rete di network di pace. A partire dal prossimo 22 maggio, quando a Torino si incontreranno, insieme a Mercedes Bresso, 14 giovani donne israeliane e palestinesi, guidate dalla Vice Presidente della Knesset, Colette Avital, e dalla Vice Ministro palestinese per le Pari Opportunità, Salwa Hebeid.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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