L’Editoriale 

Medio Oriente. La regione dei negoziati incrociati

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 7 maggio 2008

  1. La mediazione egiziana e la nuova posizione del Quartetto

La mediazione egiziana, volta a raggiungere un accordo tra tutte le milizie armate palestinesi, guidate da Hamas, su una proposta di tregua temporanea di sei mesi rivolta ad Israele, pare dunque essere giunta a positiva conclusione. Anche se restano le riserve di alcuni gruppi, come lo Jihad islamico, che si sono comunque impegnati a non rompere per primi gli accordi.

La pressione egiziana, per arrivare ad un allentamento della esplosiva pressione sulla Striscia, si è accentuata dopo l’episodio dello sfondamento della barriera di confine a Gaza, attuato da Hamas. Gli egiziani temono di doversi addossare in toto la responsabilità della Striscia, e non sono mancate le dichiarazioni in questo senso, sia israeliane che di Hamas, ad accrescere i loro timori.

La discussione tra i 12 gruppi palestinesi coinvolti è stata coordinata dal capo dell’intelligence egiziana, Omar Suleiman, che ora continuerà i suoi contatti con Israele, per ottenerne la risposta. Lo stesso Mubarak ne aveva discusso in questi giorni con il Ministro della Difesa Barak.

Di fatto, si tratta di una tregua a due stadi: questo primo periodo riguarda solo Gaza, mentre successivamente si prevede la possibilità di una sua estensione anche alla Cisgiordania. Si tratta di una concessione da parte di Hamas, che aveva sempre richiesto una contemporaneità tra le due aree, per mettere al riparo i suoi esponenti politici e militari nella West Bank), dove l’organizzazione islamica è ancora meno consolidata, dalle sempre più incisive operazioni israeliane (nonché da quelle delle forze di sicurezza della stessa ANP).

In compenso, Hamas ha ottenuto che nel pacchetto delle proposte venisse inclusa la riapertura stabile, a Gaza, del valico di Rafah, con l’Egitto, e di quello del valico di Karni, con Israele, rimuovendo così il blocco economico imposto sulla Striscia per contrastare il colpo di forza che aveva portato alla estromissione delle forze fedeli a Abu Mazen, e per provocare la caduta del Governo Haniyeh. Una nuova versione, si potrebbe dire, della opzione Gaza first, dopo quella accettata nel ’93 da Arafat negli accordi di Oslo, che può portare ad una stabilizzazione di fatto del potere della organizzazione islamica sulla Striscia.

E’ importante sottolineare come il tentativo egiziano, che già al suo avvio aveva avuto il sostegno della Rice, sia ora stato ufficialmente appoggiato dai rappresentanti del Quartetto (USA, UE, Russia e ONU), che nella loro ultima riunione del 2 maggio hanno “fortemente incoraggiato Israele, l’Autorità Palestinese e l’Egitto a lavorare insieme per formulare un nuovo approccio su Gaza che possa garantire sicurezza per tutti i suoi abitanti, la fine degli atti terroristici e assicuri una apertura controllata e prolungata dei valichi di Gaza, per ragioni umanitarie e per garantire i flussi commerciali”. Delle tre condizioni del Quartetto ad Hamas (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza e riconoscimento dei trattati pregressi) non si fa più cenno, e l’obbiettivo pare più centrato sulla gestione della realtà sul terreno, così come si presenta oggi.

E’ significativo che, in questa ottica, la dichiarazione del Quartetto si rivolga principalmente ad Israele, invitandolo a smantellare gli avamposti illegali costruiti dopo il marzo 2001 e a “congelare la continua costruzione degli insediamenti in Cisgiordania, per evitare il collasso del processo di pace”. I rappresentanti del Quartetto e dei principali donor, al contrario, esprimono apprezzamento per gli sforzi di riforma dell’ANP portati avanti dal Governo di Salam Fayyad.

La palla appare quindi nel campo israeliano, proprio nei giorni in cui sul capo del Premier Olmert si addensa la tempesta di una nuova inchiesta di polizia, i cui dettagli sono stati secretati.

Gli israeliani temono che Hamas e le altre organizzazioni più militanti possano approfittare della tregua per riorganizzarsi, rafforzarsi e soprattutto riarmarsi.

Ma d’altra parte l’esperienza ha dimostrato loro che il blocco non riesce a impedire il flusso dei rifornimenti militari verso Hamas, né il costante rafforzamento e consolidamento del suo controllo sulla Striscia.

D’altronde, tutti gli analisti militari del paese ritengono che una nuova massiccia e prolungata operazione di terra dell’area, l’unica che sarebbe in grado di porre fine al continuo lancio dei Kassam sulle città di frontiera israeliane, avrebbe costi altissimi, anche in termine di perdite previste. Ma soprattutto la rioccupazione della Striscia comporterebbe la necessità per lo Stato ebraico di farsi nuovamente carico dei bisogni della popolazione civile, con i costi enormi che da ciò deriverebbero.

Perciò, è probabile che, pur senza conferme ufficiali, l’iniziativa egiziana venga accolta in via di fatto dal Governo di Gerusalemme, anche se le forze armate continueranno fino all’ultimo minuto a martellare gli esponenti delle organizzazioni islamiche (con la stessa logica seguita nei giorni finali della passata guerra libanese). D’altronde, Barak ha già dichiarato più volte che se cessano gli attacchi da Gaza anche le forze israeliane si asterranno dal colpire gli esponenti delle organizzazioni islamiche.

Più complessa la questione della riapertura del valico di Rafah, per cui i vecchi accordi del 2005 prevedevano una presenza di forze dell’ANP, degli egiziani e di osservatori internazionali della UE (la missione EUBAM European Union Border Assistance Mission, che dopo il colpo di Hamas è stata allontanata), nonché modalità di controllo indiretto da parte israeliana. Ora gli israeliani sembrano disposti a rinunciare alla loro partecipazione anche indiretta al controllo: il piano proposto da Fayyed, il premier nominato da Abu Mazen, prevede il ritorno sul valico di forze fedeli alla ANP, che opererebbero insieme agli egiziani e agli osservatori EUBAM, garantendo così la riapertura del passaggio verso l’Egitto. Sarebbe la prima volta che forze fedeli alla Autorità Palestinese farebbero ritorno sulla Striscia dopo la loro cacciata: Hamas si accontenterebbe di dislocare le sue forze nelle vicinanze ma non direttamente sulla frontiera, accettando che vi tornino gli uomini di Abu Mazen pur di garantire alla popolazione la fine dell’assedio.

Quella che si profila, quindi, è una coabitazione temporanea fra i diversi protagonisti, che si comporterebbero come separati in casa: Abu Mazen si accontenterebbe di veder riconfermata formalmente la sua autorità sulla Striscia, Hamas potrebbe rivendicare il successo della fine del blocco e dare respiro al governo insediatosi, mentre Israele vedrebbe cessare l’incubo dei razzi sulla popolazione al confine con Gaza e la costante minaccia di nuovi atti terroristici. Per sei mesi, intanto: in Medio Oriente nulla è più stabile del provvisorio.

  1. L’Iniziativa Yemenita

D’altronde, già a marzo si era verificata una ripresa dei contatti tra ANP ed Hamas, nell’ambito della cosiddetta iniziativa yemenita. Tale iniziativa va inquadrata nella posizione assunta dalla Lega Araba, e in particolare dai maggiori Stati moderati, Egitto, Arabia Saudita e Giordania, favorevoli alla ricomposizione della unità interpalestinese, posizione riconfermata anche al recente vertice arabo di Damasco.

Sono state reiterate le prese di posizione in questo senso, in particolare di Mubarak, e dal canto suo il Re saudita ha per lungo tempo rifiutato di ricevere Abu Mazen proprio per dimostrare il suo dissenso rispetto alla scelta del Presidente palestinese di formare un nuovo governo e di rifiutare incontri con Hamas se questo non ripristinava la situazione anteriore al colpo di forza.

Non che questo significhi una scelta a favore della organizzazione islamica, ma attesta una piena consapevolezza che oramai non si può prescindere da essa nella gestione della questione israelo-palestinese.

La proposta yemenita si articola su quattro punti:

  1. Ripristino della autorità dell’ANP su Gaza, con dimissioni del Governo Haniyeh e ritorno alla situazione pregressa al colpo di forza
  2. Elezioni anticipate, a fine 2008 – inizio 2009, sia per il Presidente che per il Consiglio Legislativo Palestinese
  3. Ritorno agli accordi della Mecca e formazione di un governo transitorio di unità interpalestinese in vista delle elezioni
  4. Creazione di forze di sicurezza unificate e non asservite all’una o all’altra fazione.

Mentre era previsto inizialmente che le due delegazioni inviate a Sanaa fossero presiedute da Abu Mazen e Meshal, i due si sono defilati e hanno inviato i loro rappresentanti: Moussa Abu Marzouk, vice responsabile di Hamas e Azzam Al-Ahmad, senior adviser di Abu Mazen, che sono anche stati ricevuti separatamente dal Presidente Yemenita Ali Abdullah Saleh.

Ciò ha dato la possibilità ai due leader palestinesi, dopo il vertice, di defilarsi dall’intesa firmata dai due capi delegazione, e che affermava sostanzialmente la disponibilità delle due parti a prendere come base l’iniziativa yemenita per continuare i contatti. Alcuni portavoce delle due organizzazioni si sono spinti ad affermare che i rispettivi rappresentanti a Sanaa si “erano spinti troppo oltre”.

Abu Mazen ha così potuto continuare a affermare, anche al vertice arabo di Damasco, che nessun dialogo è stato o sarà iniziato finché Hamas non ripristinerà la situazione quo ante, mentre in effetti il negoziato è di fatto avviato, e pare che un prossimo incontro sia già annunciato.

Azzam Al-Ahmad, che ha sottoscritto per Al Fatah la proposta yemenita insieme a Hamas, ha affermato che il suo gruppo ha respinto gli sforzi di Hamas volti a cambiare il piano proposto, mentre Abu Zuhri, un altro degli esponenti di Hamas presenti all’incontro, affermava che la proposta si caratterizzava come un’iniziativa per il dialogo tra Hamas e Fatah, e non come una lista di questioni da attuare immediatamente.

Le due parti hanno ribadito, vicendevolmente, la richiesta di dimissioni preliminari del Governo Haniyeh, e di quello Fayyad (mai ratificato dal PLC), rispettivamente considerati illegittimi. Di fatto, tuttavia, l’incontro di Sanaa segna una ripresa di contatti tra le parti, pur tra mille cautele e schermaglie.

  1. Il rafforzamento di Hamas

Dietro l’apertura al dialogo si cela anche, da parte di Hamas, la consapevolezza di un netto rafforzamento nell’opinione pubblica palestinese

Un recente sondaggio del Centro diretto Khalil Shikaki a Ramallah, il Center for Policy and Survey Research , in caso di nuove elezioni presidenziali, attribuisce a Haniyeh il 47% dei consensi, contro il 46% di Abu Mazen (ma in caso di presentazione di Marwan Barghouti, il leader di Fatah protagonista della ultima intifada, che sta scontando sette ergastoli nelle carceri israeliane, questi vincerebbe con largo margine, con il 57% contro il 38% di Haniyeh).

Anche la recente intervista al quotidiano palestinese Al-Ayam del leader di Hamas, Meshal, che ha rivendicato (d’altronde non per la prima volta) la creazione di uno Stato palestinese pienamente sovrano entro i confini del 1967, compresa Gerusalemme (riconoscimento indiretto e di fatto dell’esistenza di Israele), e il rispetto del diritto al ritorno dei rifugiati, va  inquadrato in questa rinnovata iniziativa politica della organizzazione islamica, che sente aprirsi nuovi spazi nel contesto palestinese e in quello più complessivo arabo e regionale.

La stessa controversa visita dell’ex-Presidente Jimmy Carter ha contribuito a spezzare l’isolamento della organizzazione islamica, prima in Cisgiordania, con l’incontro con l’ex Vice-Premier Mohammed Al-Sha’ara, poi a Damasco egli incontri con Meshal.

Anche se le sue proposte di tregua unilaterale non sono state recepite nell’immediato, tuttavia si è trattato di un passaggio rilevante, che ha accresciuto il senso di confidenza dell’organizzazione islamica. Va sottolineato come in tutti gli incontri gli esponenti di Hamas abbiano ribadito di sentirsi vincolati, rispetto ai possibili negoziati con Israele, da quanto previsto dagli accordi interpalestinesi della Mecca, che delegavano Abu Mazen, in quanto Presidente dell’OLP (e non dell’ANP) a condurre i negoziati sul Final Status, che tuttavia dovrebbero essere sottoposti a referendum nel caso di mancata ratifica da parte del Consiglio Legislativo Palestinese. Hamas si impegnerebbe a rispettare gli esiti del referendum, anche se si trovasse a non concordare su alcuni aspetti degli accordi stessi. Tale disponibilità, tuttavia, sarebbe condizionata alla ricostituzione di un Governo di Unità interpalestinese e alla fine di ogni forma di boicottaggio verso di esso.

  1. La speranza di Abu Mazen

Da parte di Abu Mazen, si sta prendendo tempo nella speranza che il negoziato in corso con Israele gli porti qualche risultato, rafforzandolo in vista dell’effettivo avvio delle trattative con Hamas,  la cui ripresa viene comunque, pur senza ammetterlo, giudicata necessaria.

Nel corso della ultima missione della Rice, qualche risultato sulla rimozione dei check point in Cisgiordania si è raggiunto: nell’ultima settimana ne sarebbero stati eliminati 60, 10 in più di quelli concordati con la rappresentante USA (ma secondo un sopralluogo dell’ONU si sarebbe trattato solo di 44, molti dei quali di scarsa o nessuna rilevanza).

Ma queste positive, anche se limitate notizie sono state bilanciate dall’annuncio di nuove costruzioni negli insediamenti intorno a Gerusalemme, un contentino allo Shas per farlo restare al Governo. Tale politica del Governo israeliano è stata, come si è detto, duramente censurata durante l’ultima presa di posizione del Quartetto, riunito a Londra.

La posizione complessiva di Abu Mazen, quindi, pare farsi via via sempre più debole e per così dire evanescente.

Un altro elemento che frena Abu Mazen di fronte ai tentativi di rilanciare il dialogo con Hamas è la posizione del Governo israeliano, che continua a minacciare di congelare o rallentare drasticamente il negoziato sul Final Status in corso dopo Annapolis, in caso di ripresa dei contatti Fatah – Hamas, e di ricostituzione di un Governo di Unità interpalestinese.

Peraltro, il Presidente palestinese è preoccupato per i paralleli negoziati informali che Israele sta conducendo con Hamas, sulla base della mediazione egiziana già ricordata più sopra, sulla tregua per porre fine al lancio dei razzi Kassam e sui valichi di frontiera a Gaza, cui si aggiungono quelli sullo scambio di prigionieri volti alla liberazione del caporale Shalit.

Più complessa la posizione USA: la Rice ha sostenuto come si è detto gli sforzi egiziani per il raggiungimento della tregua e per la riapertura dei valichi. Ma gli USA restano freddi alla prospettiva di un riavvicinamento diretto Fatah – Hamas, come già lo furono al momento degli accordi della Mecca.

  1. L’opzione siriana

Infine, bisogna tener presente la variabile siriana. Il Governo di Damasco ha ottenuto di essere invitato ad Annapolis, ma dopo di allora poco è successo, anche se i contatti si sono infittiti e dentro Israele la cordata favorevole all’opzione negoziale siriana si è rafforzata: lo stesso Olmert ha dichiarato di aver inviato, tramite il Governo turco, numerosi messaggi ad Assad, e a lui hanno fatto riscontro dichiarazioni del Presidente Assad, secondo il quale nulla più si opponeva alla ripresa dei negoziati.

L’apertura di un negoziato con la Siria si configurerebbe anche come un tentativo di allentarne i rapporti privilegiati con l’Iran, garantendo contestualmente un effetto moderatore di Damasco su Hamas e Hezbollah: un risultato tuttavia che può essere ricercato come esito del negoziato, e non come pregiudiziale ad esso, come ancora continua a chiedere il Governo israeliano nei contatti fin qui effettuati.

Anche su questo canale negoziale pesa tuttavia la persistente ostilità degli USA, che continua a considerare la Siria uno Stato canaglia. E a Damasco, non si può dimenticare, risiede lo stesso Meshal.

La possibilità di una riapertura del canale negoziale con la Siria si inquadra peraltro nella difficile operazione volta a ridisegnare complessivamente il sistema dei rapporti e di alleanze nella regione, ora che gli USA, con la pubblicazione del rapporto dei loro servizi segreti sull’abbandono da parte dell’Iran dei programmi di munirsi dell’arma atomica, sono di fatto passati da una opzione di confronto a breve ad una strategia di contenimento di medio periodo verso Teheran, strategia che trova nell’Arabia saudita e nell’Egitto due perni di riferimento essenziali.

Il tentativo di Bush di dare sistemazione al conflitto israelo-arabo-palestinese con la convocazione della conferenza di Annapolis e gli sforzi diplomatici successivi, va inquadrata quindi nell’ottica di una volontà di stabilizzazione della regione, dando ascolto alle esigenze degli stati arabi moderati, anche se probabilmente questo nuovo approccio potrà conoscere esiti incisivi solamente dopo l’elezione del nuovo Presidente statunitense.

Gli sforzi vanno intensificandosi, anche in vista della nuova visita del Presidente Bush, prevista alla fine di maggio. Ma sulle ripetute e sempre più incalzanti pressioni della Rice, rivolte principalmente a Israele, gioca anche la consapevolezza, ripetutamente espressa, che di fronte ai processi di radicalizzazione delle società arabe, e in particolare dei giovani, l’opzione dei “due stati” rischia di divenire obsoleta, se si perde la finestra di opportunità di quest’anno.

  1. La rinnovata presenza russa

La nuova Conferenza proposta dalla Russia, per il prossimo giugno, potrebbe costituire una occasione di volano per il rilancio del processo negoziale, ma su di essa pesa la persistente resistenza israeliana, che teme di finire sul banco degli accusati e di essere costretta a nuovi passi sul fronte negoziale siriano, cui ancora non si sente pronta, nonché lo scarso entusiasmo del Governo statunitense, che vuole continuare a essere il perno dell’intero processo di pace, e guarda con sospetto al crescente protagonismo russo.

Così, si è in presenza di una complessa rete di trattative formali e informali e di corrispondenti veti incrociati, che ancora non riescono a stabilizzarsi in un quadro negoziale complessivo, che può trovare solo nel framework del Piano di pace arabo, lanciato nel 2002 e riconfermato pur con qualche elemento di cautela e di possibile riserva al recente vertice di Damasco, un necessario punto di riferimento e di orientamento complessivi.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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