L’Editoriale 

Una finestra alla Mecca

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 10 febbraio 2007

Nessuno può dire se l’accordo interpalestinese raggiunto alla Mecca funzionerà e se riuscirà a rompere l’isolamento internazionale dell’ANP e a rilanciare i negoziati con Israele, ma esso è certamente denso di significato. Lo stesso luogo, La Mecca, in tutta la sua sacralità islamica,  impegna al rispetto delle intese.
Essenziale il rinnovato protagonismo dell’Arabia Saudita e del suo Re Abdullah, che già nel 2002 fu promotore del Piano arabo di pace, approvato all’unanimità a Beirut.
Si può affermare che il Re saudita abbia agito in nome della intera comunità araba, riprendendo nelle sue mani il dossier palestinese, sottraendolo così all’invadenza iraniana. L’autonomia conquistata sul campo da Arafat dopo la Guerra dei sei giorni, conosce una brusca frenata, per l’oramai evidente inadeguatezza interna e internazionale della sua leadership. Il processo negoziale, che dagli anni ’90 era divenuto bilaterale, torna ad avere un quadro di riferimento arabo-israeliano, con una funzione di accompagnamento e di garanzia.
Il vertice sottolinea inoltre la nuova legittimazione di Hamas nel contesto arabo. Sono finiti i tempi in cui i suoi leader tentavano senza successo di farsi ricevere dai diversi Governi arabi. Anche visualmente, Meshal nei giorni alla Mecca ha avuto un ruolo del tutto pari e perfino maggiore di quello di Abu Mazen (le foto li ritraggono insieme al fianco del sovrano), e quello che ne deriva è una diarchia, su cui sarà fondata da ora in poi la ANP, con cui la Comunità internazionale e lo stesso Israele dovranno fare i conti.
Se questo possa preludere, come è previsto dal “Documento dei Prigionieri” che è a base dell’accordo raggiunto, ad una profonda ristrutturazione e democratizzazione della stessa OLP, entro cui dovrebbero confluire la stessa HAMAS e anche il Jihad Islamico, è presto per dirlo, ma quello che è certo è che il sostanziale monopolio della rappresentanza palestinese, mantenuto finora da Fatah, è finito. Il contenuto dell’accordo appare certo generico, ma significativo: il “Documento dei prigionieri” postula uno Stato palestinese entro i confini del ’67, e quindi non rivendica la terra di Israele, anche se non lo riconosce. Esso inoltre dichiara di voler concentrare l’iniziativa di resistenza entro i territori palestinesi (ma per questo Hamas si dichiara disposta a una tregua di lungo periodo) e quindi l’azione militare non viene orientata dentro Israele. Non è una rinuncia piena alla violenza, ma un passo significativo in quella direzione. Il documento impegna inoltre il nuovo Governo palestinese a fondare la sua azione “sulle precedenti risoluzioni del Consiglio Nazionale Palestinese e … sulle risoluzioni dei Vertici della Lega Araba” e “a rispettare le risoluzioni della legittimità araba e internazionale e gli accordi firmati dall’OLP” (riguardanti gli accordi di pace con Israele), inclusi quindi gli accordi di Washington del 1993 e il Piano Arabo del 2002. La disputa che si è già accesa sul termine “rispettare” invece che “accettare”, rispetto agli accordi pregressi, appare francamente stucchevole. Anche Benyamin Netanyhau votò contro gli accordi di Washington, ma quando divenne Premier si impegnò a rispettarli. Di importanza notevole il richiamo alla Risoluzione di Beirut del 2002, che, come è noto, postula il pieno riconoscimento da parte di tutti gli Stati arabi di Israele, se esso accetta la creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est e raggiunge una soluzione “equa e concordata” del problema dei rifugiati. Un riconoscimento quindi non pregiudiziale, ma condizionato all’esito della trattativa e che fa comunque cadere il rifiuto ideologico al riconoscimento stesso, come ha recentemente riconosciuto lo stesso Premier israeliano Olmert.
L’accordo della Mecca, quindi, oltre ad essere un tentativo estremo di porre termine al conflitto armato interpalestinese, rappresenta un passo importante in direzione dell’accoglimento delle tre condizioni poste dal Quartetto (riconoscimento di Israele, fine della violenza, e riconoscimento dei trattati pregressi), come sottolineano il Ministro degli Esteri francese, Philippe Douste-Blazy, e anche – più cautamente – quello italiano Massimo D’Alema.
Le reazioni statunitensi, inglesi e israeliane sono state assai più puntigliose e difensive, richiamando al rispetto integrale delle condizioni del Quartetto. Già tre volte, su queste basi, gli Stati Uniti erano riusciti a bloccare gli accordi in gestazione: si deve auspicare che non riescano ora a far naufragare quelli appena raggiunti.
L’Unione Europea, già nel dicembre 2006 aveva aperto uno spiraglio, affermando che il programma del nuovo Governo di unità nazionale doveva “riflettere” e non accettare le tre condizioni poste dal Quartetto. Ora è necessario che la nuova finestra di opportunità apertasi alla Mecca venga colta, procedendo verso il riconoscimento del nuovo Governo, se potrà formarsi, e verso la riapertura dei canali di finanziamento, indispensabili per evitare l’asfissia dell’ANP. L’atteggiamento dell’UE (e dell’Italia) può essere determinante per consolidare gli ancora incerti equilibri interni palestinesi, e anche per aprire nuovi canali di contatto e di negoziato con Israele.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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