L’Editoriale 

Davide, discolpati

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:  25 gennaio 2007

Siamo debitori di Rosellina Balbi, e dei suoi articoli (Davide, discolpati), successivi alla prima guerra del Libano, che ci hanno chiarito che nessun ebreo della Diaspora, e quindi nessun ebreo italiano, può essere chiamato, in quanto ebreo, a rispondere di quanto avviene in Israele e delle scelte dei suoi governanti. Anche se naturalmente è diritto di ogni ebreo, singolo o associato, prendere posizione su tali questioni. È un po’ come se agli argentini di origine italiana (anche se il paragone naturalmente non può essere letterale) venisse chiesto di pronunciarsi sulle scelte del Governo Berlusconi, o di quello Prodi.

 

È evidente il rischio che si ingenerino elementi di antisemitismo, se tale assunto viene trascurato. Di questo probabilmente sarebbe opportuno che lo stesso D’Alema tenesse maggiormente conto, nello sviluppare le sue considerazioni.

 

Devo confessare però un disagio crescente di fronte alle polemiche ricorrenti di questi mesi, di cui mi resta un senso di strumentalizzazione, ed anche di sconforto. Quando i vertici di importanti istituzioni comunitarie ebraiche, come la Comunità di Roma, ritengono opportuno di atteggiarsi a lobby (nel termine tecnico del termine), prendendo ripetutamente posizione, non a titolo individuale ma a nome di quelle istituzioni, su questioni di tal fatta, esprimendo giudizi sulla politica estera del Governo rispetto a Israele, o addirittura sulla opportunità di scegliere o meno questo o quello come Ministro degli Esteri, si crea un corto circuito pernicioso, e il paradigma di Rosellina Balbi non funziona più.

 

Non si può innescare un fronte polemico, e poi dichiararsi esenti dalle risposte, un po’ come i bambini che giocano a nascondino, e a un certo punto gridano “tocco terra e non ci gioco più”.

 

Pare, più in generale, di essere tornati indietro di 25 anni nel confronto politico, come se il lavoro di chiarimento e di approfondimento fatto in tutto questo periodo, sul tema del rapporto tra sinistra e questione ebraica e sulla necessità di un approccio equilibrato, critico e non propagandistico ai problemi del Medio Oriente, lavoro a cui anche chi scrive ha dedicato molto del suo impegno, sia in larga parte vanificato.

 

Riemergono (basta pensare a certe vignette apparse su Liberazione) vecchie comparazioni o addirittura sovrapposizioni tra Shoah e questione palestinese, e tra Israele e nazismo, che si credeva definitivamente superate, anche se fortunatamente non trovano spazio in maniera palese le teorie negazioniste, recentemente rilanciate da Ahmadinejad. Sotto questo aspetto, un rapporto con la sinistra riformista, certo non corrivo, ma criticamente disponibile alla discussione, appare essenziale per circoscrivere e far recedere posizioni di tal fatta, ed anche un confronto con i settori più consapevoli e riflessivi della sinistra più estrema.

 

Ed anche nel mondo ebraico riaffiorano vecchi luoghi comuni sulla sinistra, che fanno di tutt’erba un fascio e non tengono conto degli sviluppi e delle maturazioni avutesi in tutti questi anni, il che costituisce oltre che un errore un danno.

 

Vi è, tuttavia, un altro aspetto, con cui l’ebraismo progressista e più in generale l’ebraismo italiano non possono non confrontarsi, nella loro autonomia più completa e certo non per superare esami che nessuno ha il diritto di richiedere. L’amore per Israele non ci può far ignorare la crisi di visione strategica che caratterizza il suo Governo, dopo l’ultima guerra in Libano, e più in generale la paralisi del processo di pace in Medio Oriente. Le questioni avanzate da D’Alema sono probabilmente poste in maniera impropria, ma tuttavia esse sono reali, ed estremamente pertinenti.

 

Congelata la proposta di ritiro unilaterale dalla Cisgiordania, su cui aveva vinto le elezioni, il Premier israeliano, estremamente indebolito dalla disastrosa conduzione del conflitto, appare rigidamente ancorato alla Road Map, che non ha mai funzionato e mai funzionerà, e alle tre condizioni poste dal Quartetto al Governo palestinese guidato da Hamas (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza e riconoscimento dei trattati pregressi), anche se si dice disposto, in questo quadro diplomatico, a fare le più ampie concessioni. Ma è proprio il mantenimento di quel quadro, fondato su rigide pregiudiziali politiche e ideologiche, che gli garantisce, di fatto, la continuazione dello status quo, e quindi la tenuta della sua stessa coalizione di governo.

 

Intanto, quasi ogni giorno i suoi principali collaboratori, da Tzipi Livni al Ministro della Difesa Peretz, come anche da sinistra Yossi Beilin, avanzano nuovi e diversi piani di pace.

 

Neanche questi piani, tuttavia, paiono in grado di raccogliere il consenso degli interlocutori palestinesi, in particolare per la proposta di creare uno Stato palestinese con confini provvisori, lungo la cosiddetta barriera difensiva o muro che dir si voglia, confini che i palestinesi temono, probabilmente non a torto, finirebbero per diventare definitivi.

 

Il Governo di Gerusalemme appare persino incapace di mantenere gli impegni a breve termine presi nel vertice di dicembre tra Olmert e Abu Mazen (salvo che per la restituzione delle tasse doganali congelate, su cui si è cominciato a procedere): i 27 blocchi stradali che dovevano essere rimossi in Cisgiordania sono rimasti pressoché intatti, come ha documentato il quotidiano israeliano Haaretz, anche per la sorda resistenza degli apparati militari su cui il Governo non riesce a imporsi; del rilascio di un piccolo numero di prigionieri, previsto in vista delle feste islamiche di fine anno, non c’è stata traccia, poiché si è tornati a condizionarlo alla liberazione di Shalit, cosa che, come è noto, non è certo nella disponibilità del Presidente palestinese.

 

Quindi, da un lato non si ritiene sufficiente negoziare con il solo Abu Mazen, perché non lo si considera abbastanza rappresentativo, e contemporaneamente si opera per far saltare gli Accordi della Mecca tra Fatah e Hamas, che prefigurano un Governo di unità nazionale palestinese, basato sul Piano arabo del 2002, oltre che sul cosiddetto Documento dei Prigionieri, che va nella stessa direzione.

 

Eppure, lo stesso Olmert, nelle sue più recenti interviste, ha dichiarato che il Piano arabo di pace, che prevede un riconoscimento di Israele da parte di tutti gli Stati arabi, riconoscimento non pregiudiziale e incondizionato, ma legato alla creazione di uno Stato palestinese, è un punto di riferimento importante per il rilancio del negoziato, perché comunque fa cadere il rifiuto ideologico del riconoscimento dello Stato ebraico.

 

Ma perché ciò che vale per gli arabi non vale per i palestinesi, cui si continua a richiedere il riconoscimento pregiudiziale? Creare le condizioni per uno scontro frontale interpalestinese è una buona scelta? E lo è operare per respingere Hamas all’opposizione, e quindi rafforzare la sua componente militaristica e terroristica? Schiacciare quella formazione islamica sull’Iran, ed aprire spazi alla crescente presenza di Al Qaeda in Palestina, non appare molto ragionevole. Ha invece ragione Condoleezza Rice, quando afferma di preferire quelli di Hamas al governo, piuttosto che nelle strade, incappucciati, a organizzare scontri e attentati.

 

Così dicasi dell’atteggiamento pregiudiziale assunto dal Premier israeliano rispetto alle ripetute aperture siriane, che lo ha portato ad affondare il track negoziale informale (di cui ha dato notizie dettagliate Haaretz), che era arrivato a definire una ipotesi di accordo sul Golan più che moderata e realistica, a detta anche di numerosi esponenti del suo governo.

 

È evidente, invece, che il tempo non lavora a favore di Israele, e che le guidelines di un possibile accordo di pace sono oramai state individuate, dai “Parametri di Clinton” a Camp David II, al “Verbale Moratinos” di Taba, al Piano arabo di Beirut, alla Risoluzione 1397 del Consiglio di Sicurezza del 2002, alle stesse proposte dettagliate nel cosiddetto “Accordo di Ginevra”.

 

Sarebbe urgente che la Comunità internazionale, o lo stesso consiglio di Sicurezza, si assumessero la responsabilità di avanzare una proposta di sintesi alle parti, su cui favorire la ripresa e la conclusione del negoziato, naturalmente dopo un periodo prefissato di tregua, stabilito di comune accordo, che spezzi la spirale della violenza. Si può contemplare anche la possibilità di utilizzare canali informali di contatto tra le parti, che consentano di verificare la praticabilità delle proposte individuate.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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