L’Editoriale
Abu Mazen, per amore o per forza
di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente
Data pubblicazione: 20 febbraio 2007
Il vertice tripartito di Gerusalemme tra Olmert, Abu Mazen e Condoleezza Rice, è andato per certi versi meno peggio di quanto si temesse. La tenaglia Olmert-Rice, che si era profilata alla vigilia, non si è stretta intorno ad Abu Mazen, che ha ottenuto una dilazione, fino alla formazione effettiva del governo di unità nazionale, e fino a quando non sarà resa nota la sua composizione e il ruolo che in esso avrà Hamas. Ma israeliani e statunitensi sono rimasti ferreamente ancorati alla richiesta di un rispetto integrale delle tre condizioni poste ai palestinesi dal Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu), al governo palestinese, e cioè il riconoscimento di Israele, la rinuncia alla violenza e l’accettazione di tutti i trattati pregressi.
Dietro questo fuoco di sbarramento si cela anche l’indisponibilità israeliana a discutere, in questa fase, delle questioni centrali del negoziato finale, come quella dei rifugiati o di Gerusalemme. Di fatto, Olmert e la Rice hanno dovuto tuttavia scegliere un atteggiamento più interlocutorio, in base a due considerazioni essenziali: per prima cosa, non esiste un altro interlocutore palestinese in grado di sostituirsi ad Abu Mazen: il presidente dell’Anp da lungo tempo dichiara di accettare le tre condizioni, e la sua posizione contro violenza e terrorismo è nota.
Ma soprattutto, una ripulsa netta degli accordi della Mecca potrebbe costituire un oltraggio al re saudita, Abdullah, che li ha promossi e garantiti, e un indebolimento evidente per quell’asse dei paesi arabi moderati e sunniti che si contrappone all’aggressiva crescita dell’onda sciita, che fa perno sulla emergente potenza iraniana.
Olmert ha così dichiarato al gruppo parlamentare di Kadima, poco dopo l’incontro, che Israele manterrà i contatti con il presidente palestinese, ma non con il governo di unità nazionale. Dobbiamo tenere aperto un canale di comunicazione con i palestinesi – ha aggiunto, e il solo possibile è appunto il loro presidente. Tale canale affronterebbe in particolare le questioni attinenti la vita quotidiana della popolazione palestinese, e naturalmente, la lotta al terrorismo.
Secondo Saeb Erekat, il vecchio negoziatore palestinese, si sarebbe parlato anche della possibilità di estendere il cessate il fuoco di tre mesi, in vigore per l’area di Gaza, anche alla Cisgiordania.
Condoleezza Rice, l’unica a rilasciare dichiarazioni al termine del vertice, ha affermato che i due hanno concordato di incontrarsi nuovamente, e hanno reiterato il loro impegno a favore della road map e il loro auspicio per il coinvolgimento e la funzione di leadership degli Stati Uniti nel rilancio del processo negoziale. La stessa Rice si è impegnata a tornare presto nella regione.
«Tutti e tre noi – ha concluso infine, abbiamo confermato il nostro impegno per una soluzione basata su due stati, e abbiamo concordato che uno stato palestinese non può nascere dalla violenza e dal terrore».
La possibilità, avanzata dai maggiori leader israeliani, di rompere i rapporti anche con Abu Mazen, se questo varava il nuovo governo di unità nazionale con la partecipazione diretta di Al Fatah, appare quindi almeno per il momento accantonata, di fronte alla pressione della Rice.
Questo non significa che la stretta esercitata sul leader palestinese sia destinata a restare senza effetti: già altre volte il presidente dell’Anp sotto le pressioni Usa aveva mandato a monte all’ultimo minuto gli accordi definiti con Hamas. Ma anche per lui sarà difficile recedere da quegli accordi così solennemente sottoscritti, con una ulteriore e forse definitiva perdita di credibilità, ed il probabile distacco dell’ala più giovane e dinamica di Al Fatah, che si richiama al leader in carcere Marwan Barghouti, ispiratore di quel Documento dei prigionieri posto a base dell’accordo interpalestinese appena raggiunto.
Quello che stupisce, in tutto questo contesto, è l’assordante silenzio dell’Europa. Il Consiglio europeo di dicembre aveva affermato l’appoggio a un governo di unità nazionale palestinese che “riflettesse” (reflecting) le tre condizioni, sostenendo implicitamente che se fosse stata approvata una piattaforma palestinese che muovesse in direzione delle tre condizioni, anche se non le rispettava integralmente, questo sarebbe stato considerato un passo positivo, cui si sarebbe dovuto rispondere con iniziative positive e concrete.
Oggi, di fronte all’offensiva congiunta Israele-Usa, non ci si può fermare lì, si deve andare ad una posizione di sostegno più aperto.
Gli accordi della Mecca impegnano il governo al rispetto dei trattati pregressi; in tali trattati è previsto il riconoscimento esplicito di Israele; è espressa la disponibilità a rinunciare agli attacchi armati dentro lo stato ebraico e comunque ad una tregua di lungo periodo nella lotta armata.
Far cadere quegli accordi significa precipitare il popolo palestinese nella guerra civile, e comunque segnare la fi- ne politica di Abu Mazen. Il prossimo con cui discutere potrebbe essere Meshall, e potrebbe già essere troppo tardi anche per lui.
NOTE SULL'AUTORE
Janiki Cingoli
Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.
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