L’Editoriale 

Hamas. Il nodo del terrorismo

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:26 aprile 2006

La condanna dell’ultimo attentato dello Jihad islamico contro inermi civili israeliani, così come del rifiuto del Governo guidato da Hamas a prenderne le distanze, è certo necessaria, ma forse insufficiente.
Non si può nascondere la sensazione di un rituale già troppe volte percorso, la necessità di analizzare più a fondo una situazione che appare modificata nel profondo, dopo la vittoria di Hamas alle recenti elezioni legislative.
L’ottica appare ancora quella di Oslo, degli accordi di Washington, della Road Map, di un processo di pace destinato a procedere per tappe e per rassicurazioni progressive. Ma forse questo quadro non esiste più, e se si continua a riproporlo è perché si fatica ad individuare un nuovo quadro di riferimento.
La stessa cautela della reazione di Olmert, che ha evitato una reazione su larga scala, testimonia della sua consapevolezza della complessità della attuale fase politica e diplomatica.
La piattaforma politica di Hamas appare certo fuori dal tempo, con la sua visione di una Palestina vuotata di israeliani e anche di ebrei, tutta islamica. Ma è probabile che i governanti di Hamas siano disponibili ad un approccio più realistico, se non altro per avere il tempo di radicarsi e di stabilizzare il per loro nuovo e probabilmente inatteso ruolo di governo.
Hamas ripete pertanto che la lotta armata contro l’occupante è legittima e non può essere condannata, anche in considerazione della recente escalation degli attacchi mirati israeliani, ma invita i propri militanti a sospendere le azioni militari.
La formazione islamica, quindi, appare orientata a mantenere la tregua annunciata un anno fa, ma fatica a imporla ai gruppi armati concorrenti, che non sono solo quelli dello Jihad, spesso alleati a quelli di Al Fatah, per rubare terreno ad Hamas, vincolato dal suo ruolo di governo.
Qui si pone una prima questione importante. È possibile introdurre una distinzione tra lotta armata contro l’occupante e attacchi rivolti contro i civili? Certo, si tratta di un argomento spinoso, ma è stata lo stesso Ministro degli Esteri israeliano, Tipzi Livni, a ricordare recentemente questa differenziazione in una tormentata riunione di governo, tenendo testa a duri attacchi di alcuni suoi colleghi.
La legalità della lotta armata contro l’occupante è infatti riconosciuta dalla giurisprudenza internazionale, ed è un diritto dei popoli occupati, anche se la scelta se praticarla o meno risente ovviamente di valutazioni politiche e strategiche che non possono prescindere dal contesto in cui i movimenti di liberazione nazionale si trovano ad operare. E quella scelta è ovviamente incompatibile con gli accordi di Washington del 1993.
Del tutto diversa è la pratica del terrorismo rivolto contro i civili, che non può trovare spazi di tolleranza nel mondo contemporaneo, come l’on. Caruso dovrebbe sapere.
Certo, nel passato, una certa ambiguità al riguardo si era diffusa, e il terrorismo era sembrato la naturale prosecuzione della lotta armata come la guerra della diplomazia. Ma questi atteggiamenti sono scomparsi dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Hamas oggi può accettare questa distinzione, e rinunciare al terrorismo, mantenendo altresì la decisione di sospendere la stessa lotta armata per un certo periodo di tempo?
E la decisione di bloccare gli attacchi contro i civili può essere imposta dal Governo palestinese agli altri gruppi armati?
Questo è sicuramente un primo e praticabile terreno di intervento per la Comunità internazionale.
D’altronde, l’atteggiamento prudente di Hamas, su questo terreno, è una carta da non buttar via a cuor leggero, come sa bene Israele.
La seconda questione è quello degli aiuti internazionali. La linea di strangolare economicamente il Governo Hamas, spinta dagli Stati Uniti (più che dagli stessi israeliani, che si sono accodati) e non rifiutata dalla UE, è giusta? O non rischia di spingere questa formazione islamica nelle braccia dell’Iran, da cui pure la divide l’impronta sunnita, così contrastante con quella sciita di Teheran? Il fossato non è piccolo, ma, per così dire, à la guerre comme à la guerre
D’altronde, se la condizione economica e sociale della popolazione palestinese dovesse precipitare drasticamente, e la ANP dovesse crollare, la responsabilità delle condizioni civili nei territori ricadrebbe sulla potenza occupante, secondo la stessa giurisprudenza internazionale, e Israele sarebbe costretta a sobbarcarsi il peso della amministrazione civile e dei relativi stipendi. E certamente non arde di arrivare a questo.
Appare pertanto urgente individuare forme positive, attraverso la Presidenza di Abu Mazen o la creazione di agenzie internazionali o altro, che consentano urgentemente di far pervenire gli aiuti internazionali necessari per evitare il crollo, evitando possibilmente gli scandali iracheni dei programmi Oil for Food.
Infine, la prospettiva diplomatica.
La questione del riconoscimento di Hamas del diritto all’esistenza di Israele può probabilmente essere perseguita attraverso la accettazione, da parte di quel governo, del Piano arabo di Beirut del 2002, che prevede il riconoscimento da parte di tutti gli Stati arabi di Israele dopo il suo ritiro dai territori occupati e la creazione di uno Stato Palestinese, con capitale Gerusalemme Est, nonché una soluzione equa e condivisa della questione dei rifugiati palestinesi.
Questo porrebbe il Governo palestinese in condizioni di parità con gli altri Stati arabi, e lo renderebbe presentabile alla Comunità internazionale.
Certo, il Piano arabo non è accettabile per Israele, che invece chiede che il riconoscimento sia prioritario, secondo quanto convenuto a Washington nel 1993. Vi è qui una questione di sostanza, e cioè quella del riconoscimento degli accordi presi dai governi palestinesi pregressi.
Ma la accettazione di Hamas del Piano arabo farebbe cadere la pregiudiziale ideologica al riconoscimento di Israele, facendone una possibilità collegata all’esito stesso della trattativa sul Final Status.
I contenuti dell’accordo definitivo di pace ritornano quindi al centro della questione: quale Stato palestinese, quali confini, quali garanzie di sicurezza per Israele, Gerusalemme, i rifugiati, i coloni, l’acqua.
Su questi aspetti, sarà necessario promuovere un negoziato parallelo e informale, che consenta di individuare una piattaforma di pace condivisa e accettabile, sancita internazionalmente.
Le linee guida di questo possibile accordo sono state già scritte a Camp David e Taba, e ulteriormente precisate negli Accordi di Ginevra, oggi più che mai attuali.
Da qui è necessario ripartire, consapevoli che in Medio Oriente il processo di pace a tappe è oramai esaurito e non ha più alcuna possibilità di rivivere.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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