L’Editoriale 

Beirut e Gerusalemme

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 4 aprile 2006

A.B.Yeoshua e Amos Oz, negli ultimi giorni, hanno affermato che, vista l’incomunicabilità creatasi dopo la vittoria di Hamas in Palestina e di Kadima in Israele, e l’impossibilità di rilanciare il negoziato a due, l’unica alternativa al risorgente unilateralismo è quella di fare ricorso ad un diverso quadro diplomatico, a livello regionale, quale quello assicurato dalla iniziativa di pace lanciata dalla Lega Araba nel 2002, nel vertice di Beirut.
Quella proposta, in breve, prevedeva che se Israele si fosse ritirato dai Territori occupati nel 1967, inclusa Gerusalemme, avesse dato al problema dei Rifugiati una soluzione equa e concordata, ed avesse consentito la nascita di uno Stato palestinese, tutti gli Stati arabi avrebbero riconosciuto lo Stato ebraico e stabilito normali rapporti con esso.
Il Piano arabo venne rifiutato da Israele, sia perché anteponeva il ritiro al riconoscimento, sia perché prevedeva il ritiro da tutti i territori palestinesi, cosa che il Governo di Gerusalemme non voleva accettare.
Ma esso era interessante perché venne votato all’unanimità da tutti gli Stati presenti, inclusi Siria e Libia, e per la prima volta lasciava vedere la possibilità di un Medio Oriente stabile e pacificato.
Ora, Hamas, che rifiuta di riconoscere Israele su un piano bilaterale, potrebbe forse accettare di aderire ad una piattaforma araba, proposta all’unanimità da tutti gli Stati, inclusa la Siria che all’organizzazione islamica ha offerto e offre ospitalità.
Non è un caso che Abu Mazen, nella sua recente intervista ad Haaretz, abbia sottolineato con forza la validità di quella piattaforma come cardine comune cui fare riferimento.
Non si tratterebbe, d’altra parte, di un riconoscimento immediato ma condizionato, contemporaneo a quello di tutti gli arabi, ed in cambio di uno Stato concreto e non di vaghe promesse negoziali, e questo potrebbe facilitare l’evoluzione della formazione islamica e l’abbandono delle posizioni di rifiuto assoluto.
D’altronde, la stessa ipotesi di questa evoluzione è per l’appunto una ipotesi non scontata, cui osta la dura scorza ideologica e il fondamentalismo religioso di Hamas.
La accettazione del Piano arabo sarebbe comunque insufficiente ad avviare la trattativa, dato il rifiuto israeliano, ma costituirebbe comunque un passo politico significativo, ed avrebbe il vantaggio per il Partito islamico di trarlo dall’isolamento, ricongiungendolo alla umma panaraba.
Va detto altresì che tutta questa possibile dinamica contiene un punto estremamente delicato, poiché si deve evitare che Al Fatah e Abu Mazen si sentano scavalcati da una prematura apertura ad Hamas, che non ottenga l’adempimento delle stesse condizioni che Al Fatah ha dovuto accettare, per arrivare a firmare gli accordi di Washington del settembre 1993.
Peraltro, anche la posizione israeliana, che antepone il riconoscimento all’avvio del processo diplomatico, presenta gli stessi caratteri di asimmetria negoziale del piano arabo. Questo chiede il ritiro israeliano dai territori prima del riconoscimento, Israele chiede il riconoscimento prima di iniziare latrattativa.
Con la Siria, in definitiva, si è trattato a fondo, anche negli ultimi anni, senza che il riconoscimento ci fosse, e si convive stabilmente dall’armistizio del ’48.
Israele non ha bisogno del riconoscimento arabo per affermare la sua legittimità, già sancita internazionalmente.
I due termini della questione, in qualche modo, devono procedere insieme, e quindi è necessario sviluppare negoziati informali, che consentano di arrivare contestualmente al riconoscimento e all’accordo di pace.
D’altronde, non si parte da zero: i termini del problema, dai “Parametri di Clinton” dopo Camp David, al verbale Moratinos di Taba, alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 2002, alle stesse elaborazioni dell’Iniziativa di Ginevra, sono oramai in larga misura definiti.
La realtà è che il processo negoziale per tappe, avviato a Oslo nel 1993 e sfociato ultimamente nella Road Map, appare oramai irrimediabilmente consunto. È improbabile che Hamas rimunci al suo unilateralismo in cambio di labili tappe intermedie.
D’altronde, l’unilateralismo di Hamas alimenta quello di Kadima, che ha rilanciato l’idea di nuove ritirate in Cisgiordania, e arriva ad ipotizzare di stabilire autonomamente i confini dello Stato ebraico entro il 2010.
Alla base di questa piattaforma, proposta dallo stesso Sharon nel dicembre 2003, vi sono sia concezioni territoriali, che concezioni di sicurezza, che preoccupazioni demografiche, che consigliano di abbandonare i territori più densamente popolati dai palestinesi, per non compromettere il carattere ebraico dello Stato.
Si parla quindi di abbandonare larga parte della Cisgiordania, ma di mantenere e rafforzare il controllo non solo sui grandi insediamenti lungo la Linea verde e intorno a Gerusalemme, e sulla stessa Gerusalemme, ma anche sulla Valle del Giordano.
Ma così si può al massimo arrivare, forse, a consolidare lo status quo, anche grazie alla tregua annunciata da Hamas, che in questi giorni pare traballare pericolosamente, anche per la concorrenza dei gruppi armati di Al Fatah, che cercano di scavalcare la formazione islamica oramai chiamata a responsabilità di governo.
Ma questa impostazione di Kadima non puòarrivare a costruire una pace stabile, in cui Israele possa essere uno Stato normale che viva normalmente nella Regione.
È questo il nuovo terreno su cui l’Europa può dare un contributo decisivo, sfuggendo agli opportunismi di Putin ma anche alle concezioni ideologiche dell’amministrazione Bush, e senza concedere ad Hamas quel riconoscimento politico che non ha dimostrato di poter avere. Favorendo così una evoluzione complessiva del quadro regionale in direzione della pace.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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