L’Editoriale 

La svolta di Sharon

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 15 giugno 2004

Il Governo israeliano è giunto domenica 6 giugno ad una sofferta e contrastata approvazione del “Piano di disimpegno” proposto da Sharon nei mesi scorsi, e parzialmente modificato per superare le resistenze dei ministri e della destra.
Il piano, che prevede un ritiro unilaterale da 21 insediamenti a Gaza, e da 4 in Cisgiordania, con il conseguente ridispiegamento dell’esercito su nuove linee di difesa, presuppone che nel settembre del 2005 non vi siano più ebrei nell’intera area di Gaza, eccetto un corridoio al confine con l’Egitto che verrebbe mantenuto per motivi di sicurezza, onde evitare il traffico di armi lungo i tunnel sotto il confine.

Il 14 aprile, il piano era stato approvato dal presidente Bush, durante l’incontro a Washington con il Premier Sharon, con uno statement in cui tra l’altro si prevedeva che alcuni tra i più importanti insediamenti in Cisgiordania potessero restare israeliani, “sulla base di scambi territoriali mutamente concordati” tra le parti nell’ambito dei negoziati finali.

Un importante successo per Sharon, che però non riusciva ad evitare la drastica bocciatura del suo piano, all’inizio di maggio, nel referendum tra gli iscritti al Likud.

Il Premier tuttavia aveva deciso di andare avanti, conscio che non vi erano alternative politiche, che non si potevano smentire gli accordi raggiunti con gli Stati Uniti.

Aveva però introdotto alcuni cambiamenti al piano, come la decisione di abbattere le case dei coloni evacuati, invece di consegnarle ai palestinesi come previsto inizialmente. Una decisione assurda anche dal punto economico, dato che quelle abitazioni avrebbero potuto essere utilizzate nel conto delle riparazioni israeliane per i rifugiati palestinesi, che tuttavia è stata presa per attenuare la resistenza dei coloni, restii a cedere le loro abitazioni al “nemico”. Si spera che questa scelta possa essere in seguito modificata, anche con la pressione internazionale.

Un’altra modifica non irrilevante è la divisione dei 25 insediamenti in quattro blocchi, da evacuare per gradi, ma comunque entro il 2005, e la decisione che su ogni insediamento da evacuare il governo dovrà pronunciarsi nuovamente.

Poiché, malgrado tutte queste modifiche, Sharon non arrivava ad ottenere il consenso di più di 11 ministri su 23, egli non esitava a dimissionare i due ministri dell’Unione Nazionale, di estrema destra, per garantirsi l’approvazione. Egli riusciva così a costringere anche i ministri dissidenti del Likud, guidati da Netanyahu, a votare a favore del piano, che passava con 14 voti contro 7.

Due giorni dopo si sono dimessi anche due ministri del Partito Nazionale Religioso, creando una nuova instabilità, che potrebbe sfociare anche in un Governo comprendente il Labour.

Si tratta, senza dubbio, di una svolta di grande rilievo, anche se andrà verificata la capacità di Sharon di attuare il suo piano.
Che sia la destra a decidere di evacuare un numero così alto di insediamenti, rompe tabù consolidati, costituisce un precedente determinante e mette Israele di fronte ad una realtà cruda: non si può continuare ad affrontare i palestinesi solo in termini di repressione: ragioni di sicurezza, economiche e anche demografiche impongono allo Stato ebraico, se vuole restare tale, di non continuare a presidiare aree a schiacciante maggioranza palestinese, come Gaza.
L’elemento contradditorio è il carattere unilaterale del ritiro annunciato: il problema a cui è di fronte la Comunità internazionale è posta è la riconnessione di questa iniziativa alla Road Map, in modo da farne una sostanziale Confidence Building Measure in grado di rilanciare il processo di pace.
In questo senso si è espresso con grande forza il Quartetto (USA, UE, Russia e ONU), con una dichiarazione forte e di grande impatto.
L’Egitto (e in misura minore la Giordania) sta sviluppando parallelamente una significativa iniziativa triangolare di grande significato, puntando a superare il rifiuto israeliano a negoziare il ritiro con la Autorità Nazionale Palestinese e ad evitare che Gaza cada sotto il controllo dei gruppi del fondamentalismo islamico.

Esso punta a concludere due accordi separati, con Israele e con l’ANP, che così tratterebbero attraverso una terza parte, volti ad addestrare e ricostruire le forze di sicurezza palestinesi garantire l’ordine a Gaza, anche attraverso la presenza di centinaia di membri della sicurezza egiziana lungo il confine e dentro Gaza.

La leadership palestinese, e personalmente Arafat, sono sottoposti a loro volta di fronte a una scelta stringente: accettare il piano egiziano, che presuppone una profonda svolta nella gestione della miriade di servizi di sicurezza palestinesi (che dovrebbero essere concentrati in tre servizi, e sottratti al controllo esclusivo del presidente), nonché una lotta non solo dichiarata contro la corruzione dilagante e l’avvio concreto della riforma dell’ANP: scelte necessarie perché la ANP torni ad essere interlocutore credibile nel processo di disimpegno israeliano e nel rilancio della Road Map.

 

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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