L’Editoriale 

Il triangolo di Sharon

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:24 febbraio 2004

La corte internazionale dell’Aja ha iniziato in questi giorni la discussione sul contestato muro di difesa che il Governo israeliano sta costruendo. Al di là della valutazione di merito sulla sua opportunità e necessità, ed anche se non possono certo essere ignorati i problemi di sicurezza esistenti, l’elemento essenziale di disaccordo dell’opinione internazionale è la scelta di includere nel suo percorso consistenti aree palestinesi, al di là dei confini del ’67, con la creazione di nuovi fatti compiuti, che renderanno ancora più difficile riprendere i negoziati e arrivare alla pace.

È positivo che la pressione internazionale, ed in particolare degli Stati Uniti, abbia ottenuto una prima consistente modifica del tracciato, che verrà accorciato di 100 km sui 700 previsti inizialmente.

La costruzione del muro, tuttavia, si accompagna ad altri due decisioni, annunciate dal premier Sharon in questi mesi di fronte allo stallo della Road Map, che Israele intende comunque coordinare con gli Stati Uniti.

Si tratta di scelte, si dichiara, volte a ridurre al minimo le frizioni tra israeliani e palestinesi, a “ridurre il terrorismo il più possibile” e a “garantire il massimo livello di sicurezza ai cittadini israeliani”.

La prima è il ridispiegamento complessivo dell’esercito lungo nuove linee di sicurezza che vengono definite provvisorie, perché non vogliono indicare il confine definitivo di Israele; la seconda è la drastica diminuzione degli israeliani localizzati nel cuore della popolazione palestinese, con la ridislocazione di 20 colonie israeliane, di cui 17 a Gaza e 3 in Cisgiordania, quegli insediamenti che “in qualsiasi possibile futuro accordo di pace non saranno comunque compresi nello Stato di Israele”.

Contemporaneamente, è stato condotto lo scambio con Hezbollah, liberando 400 detenuti palestinesi in cambio delle salme di alcuni soldati caduti e di un prigioniero israeliano in Libano.

Decisioni come queste furono a lungo richieste da Abu Mazen, e la loro mancata adozione fu una delle cause della sua caduta.

Di fronte a tali scelte, non ci si può limitare a dire dei no. La questione di fondo è se esse sono assunte come misure per ristabilire la fiducia, in una ottica di rilancio del negoziato, o in una ottica solo militare, di ripiegamento tattico per ristabilire una linea di difesa più solida.

Una linea unilaterale aprirebbe gravi conseguenze per la stessa permanenza della Autorità Nazionale Palestinese, favorendo, in particolare a Gaza, il rafforzamento di Hamas e delle correnti fondamentalistiche.

Le questioni di fondo, come quella di Gerusalemme e quella dei rifugiati, resterebbero comunque irrisolte, continuando ad alimentare la tensione, col rischio che si estenda più ai palestinesi dentro Israele.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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