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L’Analisi

I palestinesi stanno a guardare

di Paola Caridi

Data pubblicazione: 31 gennaio 2013

L’entusiasmo non è, certo, il sentimento più diffuso tra i palestinesi, di questi tempi. Né il risultato delle elezioni israeliane è di quelli che possano riuscire a scalfire uno scetticismo ormai consolidato, duro quanto la pietra. Lo ha detto anche il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas, in una delle interviste più recenti. Può cambiare il governo israeliano, ma non possono cambiare le richieste palestinesi sul processo di pace.

Il messaggio di Abbas, rivolto non solo al governo israeliano ma anche agli interlocutori interni alla politica palestinese, è chiaro. Possono cambiare le alchimie nella composizione del futuro esecutivo israeliano, tra destra, centro-destra, destra-destra. Non può, però, modificarsi più di tanto la soglia minima delle richieste palestinesi, pena il rischio che i delicati equilibri politici e sociali (soprattutto in Cisgiordania) saltino.

I palestinesi, insomma, sono in una posizione attendista. Aspettano di capire chi sarà il prossimo ministro degli esteri israeliano. Sperano, certo, che sia Yair Lapid, oppure – secondo qualche indiscrezione di stampa – l’ex direttore dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, Yakov Peri. Entrambi, dunque, esponenti del partito che a sorpresa ha vinto le elezioni del 23 gennaio scorso, lo Yesh Atid, virtualmente un partito centrista, nei fatti un partito inclusivo con venature da Balena Bianca.

Perché i palestinesi preferiscano Lapid e/o Peri è evidente: sicuramente meglio loro di Avigdor Lieberman. Che Lapid e/o Peri siano, però, portatori di una linea politica decisamente diversa da quella di Netanyahu o di Lieberman è invece tutto da dimostrare. A giudicare, anzi, da quanto la stampa israeliana (sia quella di carta, sia quella su internet) sta dicendo in questi ultimi giorni, i nuovi arrivi alla Knesset non modificheranno di molto la posizione che Israele ha assunto nei riguardi della questione palestinese, e soprattutto delle colonie.

Lo status quo versione israeliana, e cioè la crescita senza freni delle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est, non si fermerà con la presenza al governo di Yesh Atid, né con una sostanziale limitazione del peso specifico di Benyamin Netanyahu. E allora? Se tutto è cambiato, nelle elezioni israeliane, perché nulla cambi nel rapporto con i palestinesi, cosa si aspetta l’ANP dai futuri interlocutori? Quello che i palestinesi attendono è quel minimo di discontinuità rispetto al passato che possa consentire almeno un incontro, un nuovo contatto, un inizio di dialogo. Qualcosa che sia diverso dal nulla degli scorsi quattro anni.

La dirigenza dell’ANP, d’altro canto, non può attendersi più di tanto. Solo un leggero miglioramento del rapporto con gli israeliani, per poter aderire alle pressioni dei paesi europei e degli Stati Uniti e riaprire i contatti al di là del Muro di Separazione. Niente più di questo, perché è anche la situazione socio-politica palestinese a non consentire di volare alto. E perché gli equilibri regionali premono sulla politica palestinese molto più di prima.

Abbas non può fare a meno di prendere posizioni pubbliche su Israele ponderando ogni singola parola. Perché la questione della riconciliazione tra Hamas e Fatah, tra Gaza e Cisgiordania non è una variabile ininfluente. Il processo di riconciliazione, seppur infinito e all’apparenza senza sbocchi pratici, ingessa l’intera politica palestinese, anche (se non soprattutto) quando si tratta di Israele.  Quando Abbas parla, insomma, pensa alla reazione di Khaled Meshaal, agli incontri sulla riconciliazione del Cairo, alle possibili elezioni palestinesi, alla riforma dell’OLP, ai pesi specifici definitivamente cambiati dentro la casa palestinese.

Evidente, quindi, che Abbas non possa e non voglia fare più di tanto. Visto che, dall’altra parte, non c’è nessuna proposta che possa aiutarlo a superare la sua impasse, quella dell’ANP e la stessa fase di transizione in cui vive Hamas. Il movimento islamista palestinese non ha, infatti, ancora chiarito quali siano i suoi nuovi equilibri interni, chi sarà il nuovo capo dell’ufficio politico, quale peso avrà l’ala di Gaza. E a influire su una fase di stallo che data ormai da oltre un anno c’è l’instabilità egiziana: una instabilità che ha spento subito le speranze di Hamas di avere dalla sua parte un paese fondamentale come l’Egitto, dopo la vittoria elettorale dei Fratelli Musulmani e il sostanziale controllo, da parte dell’Ikhwan, dei poteri esecutivo e legislativo al Cairo.

Ancora una volta, dunque, i palestinesi (tutti, Fatah e Hamas compresi) recitano la parte del vaso di coccio, premuto dalla ricomposizione politica israeliana e l’instabilità egiziana (e regionale). Ancora una volta, i palestinesi sono un piccolo problema in un mare di questioni aperte in tutta l’area, che si riverbereranno sul futuro della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme est. A differenza del passato, c’è – tra i palestinesi – molta meno retorica, e molto più realismo. Nessuno pensa che la situazione possa cambiare per il meglio, o a loro favore.

NOTE SULL'AUTORE 

Paola Caridi

Socia fondatrice di Lettera 22 e responsabile del sito http://invisiblearabs.com/

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