Home ≫ ANALISI

L’Analisi

Se Obama chiama

di Ugo Tramballi

Data pubblicazione: 25 marzo 2010

L’idea d’insediare gli ebrei in Palestina, diceva un cablo del Foreign Office trasmesso nel 1916 agli ambasciatori inglesi in Medio Oriente, «potrebbe essere resa più allettante se offrisse loro la prospettiva – quando con il passare del tempo i coloni ebrei fossero diventati abbastanza forti da far fronte alla popolazione araba- di poter sperare di prendere la gestione degli affari interni in quella terra nelle loro mani. Il nostro solo obiettivo è trovare una sistemazione che sia così allettante per la maggioranza degli ebrei da permetterci di raggiungere un accordo e ottenere il loro sostegno».

La Gran Bretagna credeva di fare dei coloni uno strumento del loro potere e non si rendeva conto di essere invece già lei un tassello del disegno nazionale sionista. Haim Weitzman, il presidente dell’Organizzazione sionistica mondiale aveva un rapporto privilegiato con tutti i primi ministri sia laburisti che tory. Di Arthur Balfour che avrebbe fatto la famosa “dichiarazione” sul focolare ebraico in Palestina, era un amico personale. A volte Weitzman veniva perfino invitato ad assistere alle sedute di gabinetto al numero uno di Downing street. È Tom Segev nel suo “One Palestine Complete” (Metropolitan Books, New York 2000) a fare un resoconto dettagliato su quanto gli inglesi avessero consapevolmente o inconsapevolmente lavorato più a favore degli ebrei che degli arabi nel periodo del loro Mandato sulla Palestina. Anche David Ben Gurion che del focolare ebraico era il leader sul campo, era d’accordo con Weitzman: il Paese che stavano costruendo sarebbe stato troppo piccolo e avrebbe avuto troppi nemici per fare a meno dell’appoggio di una superpotenza. Diversamente da Weitzman del quale presto avrebbe preso il posto come uomo forte dell’Organizzazione sionistica, già alla fine degli anni Trenta, Ben Gurion aveva capito che la superpotenza della quale coltivare l’aiuto non doveva più essere il declinante impero britannico ma gli Stati Uniti.

Nella storia pochi investimenti politici hanno reso così tanto. È stato calcolato che l’aiuto storico americano a Israele abbia superato nelle sue varie forme i 100 miliardi di dollari: trasferimento di denaro a fondo perduto per la crescita economica, per favorire l’immigrazione ebraica, garanzie sul credito alle imprese americane che investono in Israele, aiuto militare. Ma soprattutto il continuo e disinteressato aiuto politico, l’impegno a garantire la sicurezza nazionale che soprattutto dalla guerra del Kippur del 1973 in poi, gli Usa non hanno mai fatto mancare a Israele.

Può Bibi Netanyahu rinunciare a tutto questo? Nessuno al mondo riconosce l’annessione israeliana di Gerusalemme Est, nessuno ammette l’occupazione dei Territori palestinesi e delle alture del Golan né il diritto israeliano ad avere un arsenale nucleare. E nemmeno l’uso a volte spropositato della sua forza contro i palestinesi, per garantire la propria sicurezza. Nemmeno l’America riconosce tutto questo. Ma senza la sua diplomazia oggi Israele sarebbe davvero un Paese isolato. No, nemmeno Bibi può fare a meno degli Stati Uniti e litigare con il loro presidente. «Costruire a Gerusalemme per me è come costruire a Tel Aviv», prometteva Netanyahu prima di andare a incontrare Barack Obama. Il messaggio era chiaro e sembrava una sfida: gli insediamenti ebraici nella Gerusalemme Est araba, vanno avanti. Tuttavia, anche Ariel Sharon aveva detto che per lui l’insediamento di Netzarim a Gaza e Tel Aviv avevano la stessa importanza: poi ha smantellato tutte le colonie della Striscia. Prima di partire per Camp David dove avrebbe discusso e firmato la pace con l’Egitto, evacuando la penisola del Sinai, anche Menahem Begin aveva detto che avrebbe preso casa nella colonia di Naot Sinai. La politica è fatta di tante parole che passano e di alcuni fatti che restano nella storia.

Il problema ora non è incidere sulla pietra come tavole della legge il divieto israeliano di allargare i suoi insediamenti a Gerusalemme Est. Ma di fermarli per consentire alla trattativa di riprendere e di guadagnare tempo per il processo di pace. La crisi fra Stati Uniti e Israele ha tutta l’aria di non essere paragonabile a quella provocata nel 1991 da Yitzhak Shamir, quando il segretario di Stato James Backer congelò le garanzie sui crediti americani fino a che Israele non avesse cessato la costruzione di colonie (furono vere sanzioni). Ma Barack Obama e Hillay Clinton hanno ricordato a Israele che la questione di Gerusalemme non può essere elusa. Che la soluzione dei due Stati, Israele e Palestina, non può essere raggiunta senza una Gerusalemme capitale ebraica e una capitale araba.

NOTE SULL'AUTORE 

Ugo Tramballi

Inviato speciale de Il Sole 24 Ore e responsabile del blog http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/ 

Leggi tutte le ANALISI