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L’Analisi

Palestinesi. Una riconciliazione di nome Godot

di Paola Caridi

Data pubblicazione: 25 marzo 2010

E se gli ultimi Qassam sparati dalla Striscia di Gaza verso Israele fossero contro Hamas? La lettura, a prima paradossale, l’ha fatta negli scorsi giorni Mahmoud az-Zahhar, una delle figure più importanti nella nomenklatura di Hamas, non solo a Gaza. In una intervista a una tv iraniana, il vecchio conservatore Zahhar ha definito il lancio di Qassam come “un’operazione sospetta che ha il fine di consentire al nemico di guadagnare punti a suo favore nell’opinione pubblica e distrarre l’attenzione dai suoi crimini nei Territori”. I Qassam, che dunque non portano la firma del movimento islamista, distraggono l’attenzione da Gerusalemme, dice Zahhar, un uomo che già alla metà degli anni Novanta si era espresso contro una reazione troppo dura verso Israele da parte dell’ala militare di Hamas, dopo l’uccisione di uno dei suoi capi.

La frase  di Mahmoud az-Zahhar, forse il più forte dell’ala politica di Hamas a Gaza, dice anche altre cose, oltre l’apparente paradosso. Dice, per esempio, che il movimento islamista palestinese – persino nella gabbia di Gaza – ha ben presente quanto la trama della riconciliazione interna intrecciata con le manovre diplomatiche internazionali sia molto fragile. E’ un periodo di estrema transizione, questo, anche dentro il mondo palestinese, e le fazioni storiche – Fatah e Hamas comprese – lo sanno. Hamas è diventata un’organizzazione che gestisce il potere, con tutto ciò che ne consegue. Fatah non è riuscita a riformarsi, con l’ultimo congresso della scorsa estate a Betlemme, e sente il fiato sul collo di un governo, quello di Ramallah, che gioca una partita sua propria attraverso il nuovo protagonismo di Salam Fayyad. Un uomo che sta cambiando la sua immagine dal tecnocrate amato dall’Occidente al politico che fonderà presto, formalmente e non solo, lo Stato di Palestina. E poi ci sono i movimenti dal basso, per nulla embrionali anche se minoritari: non certo i ragazzi che tirano i sassi contro le forze armate e la polizia israeliana tra Gerusalemme est e la Cisgiordania, quanto piuttosto i protagonisti di una resistenza non violenta che comincia a provocare le prime reazioni da parte israeliana. Sono i protagonisti, diversi per cultura politica, delle varie campagne di boicottaggio, di manifestazioni contro il Muro, di attivismo globalizzato che stanno incidendo sull’immagine di Israele all’estero. Come il rapporto Goldstone sull’Operazione Piombo Fuso.

Se i protagonisti dell’ennesima transizione palestinese stanno, a diversi livelli, rimescolando le carte della situazione interna, tra i Territori Occupati e la diaspora, ciò non vuol dire che questi cambiamenti possano già incidere sulla riconciliazione tra Fatah e Hamas. Nonostante, soprattutto nelle scorse settimane, si siano registrati alcuni fatti interessanti. Il più seguito a livello mediatico è stato l’incontro a Gaza tra Nabil Shaath, vecchio leader di Fatah, e i dirigenti di Hamas, a cui sono seguiti anche contatti tra lo stesso Shaath e gli uomini di Hamas a Ramallah, senza però che vi fosse poi uno sviluppo interessante. Almeno sino ad ora. Di incontri, comunque, ce ne sono stati altri, di cui non si sa nulla, o di cui esce qualche accenno sulle fonti informative: viaggi al Cairo, luogo che rimane – obtorto collo per alcuni – il centro insostituibile della riconciliazione possibile; oppure a Damasco, come il viaggio compiuto proprio negli scorsi giorni da Azzam al Ahmad, dirigente di Fatah, per incontrare l’uomo che sta gestendo per Hamas, da mesi se non da anni, il farraginoso negoziato interpalestinese, Moussa Abu Marzouq.

A sentire le voci del mondo politico di Ramallah, l’accordo sulla riconciliazione sarebbe già stato raggiunto negli scorsi mesi, se non fosse stato per le pressioni americane, esercitate soprattutto sugli egiziani, per rinviare l’intesa a data da destinarsi. Il tempo, però, stringe, come si vede dalle pressioni sempre più insistenti di Washington su Benjamin Netanyahu. Gli europei poi, dicono sempre le voci, stanno da mesi coltivando contatti molto informali e anche molto incostanti con Hamas, attraverso incontri in paesi neutri, per esempio. E a Hamas qualcuno ha fatto sapere che molti, nei circoli diplomatici europei, ora pensano che nel 2006 fu un errore isolare il movimento islamista che aveva appena vinto le elezioni. Quanto queste autocritiche possano aiutare la riconciliazione palestinese, non è dato sapere. Quello che sembra evidente, è che i singoli stati europei sono molto attenti, in questi ultimi mesi, a conservare l’immagine di un ruolo terzo, come si è visto con le reazioni durissime verso Israele sul Dubaigate e la questione dei passaporti usati dal commando che ha ucciso Mahmoud Al Mabhouh. La linea severa decisa per esempio dal capo della diplomazia britannica, David Miliband, con l’espulsione del capo del Mossad da Londra, la dice lunga sulla volontà del governo di Gordon Brown di ritagliarsi un ruolo incisivo, già evidenziato dall’attivismo di Lady Ashton, Mrs. Pesc, degli ultimi giorni. E’ storia nota, peraltro, quella secondo la quale sono i servizi segreti britannici quelli che conoscono meglio la situazione politica interna palestinese, tanto da farne degli interlocutori insostituibili in un possibile coinvolgimento di tutte le fazioni palestinesi.

Sia la posizione europea sia quella americana, però, sono bloccate dall’inserimento di Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche, che non consente contatti più palesi. Un blocco che apre la porta ad altri attori. Ultimo in ordine di tempo il Brasile, come ha fatto capire a chiare lettere il presidente Ignacio Lula da Silva nella sua recente visita in Medio Oriente. “Il Brasile è preparato a parlare con tutti”, ha detto. Non c’è stato bisogno di aggiungere ulteriori dettagli.

NOTE SULL'AUTORE 

Paola Caridi

Socia fondatrice di Lettera 22 e responsabile del sito http://invisiblearabs.com/

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