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L’Analisi

Israele: un paese sull’orlo di una crisi di nervi

di Marco Allegra

Data pubblicazione: 7 giugno 2010

Le reazioni israeliane al tragico esito della spedizione navale per Gaza sono state di segno diverso. Molti – e in particolare i principali politici a livello nazionale – hanno sostenuto il diritto israeliano a controllare gli sbarchi a Gaza per ragioni legate alla sicurezza nazionale. Il governo ha da parte sua difeso a spada tratta l’operato dei militari, scaricando la responsabilità dell’accaduto sugli attivisti della flottiglia. Ehud Barak a sottolineato come siano stati questi ultimi a iniziare gli scontri e a determinare la reazione violenta del commando israeliano. Pesantissime accuse sono state lanciate agli organizzatori del convoglio: il vice di Avigdor Lieberman, Danny Ayalon ha parlato di un’“armata dell’odio e della violenza a sostegno di Hamas”, di “premeditata e oltraggiosa provocazione”, additando i legami fra gli organizzatori da un lato e “il jihad globale, al-Qaeda e Hamas”.

Dall’altro lato molti dei commentatori israeliani hanno sottolineato l’innegabile autogol nelle sue varie sfaccettature. Politicamente, Israele sarebbe caduto nella “trappola disposta dagli organizzatori della flottiglia” (Hamos Harel, Haaretz); si nota la gestione approssimativa dell’operazione – per la quale marina e agenzie di sicurezza avevano avuto tutto il tempo per prepararsi – e non ci si spiega (David Horovitz, Jerusalem Post) il fatto che un così scarso contingente di uomini sia stato mobilitato per compiere l’abbordaggio vero e proprio. Si lamenta una prossima sconfitta nella “media war” aperta dal tragico episodio. I titoli di articoli ed editoriali usciti in questi giorni ripetono insistentemente parole come “fiasco”, “errore” o “stupidità”.

Di fiasco indubbiamente si tratta; tuttavia solo alcuni commentatori sembrano cogliere quanto va oltre l’episodio. Uno per uno i molteplici autogol segnati da Israele negli ultimi cinque mesi potrebbero essere definiti come “errori”. Visti tutti insieme, il quadro è sbalorditivo: a un anno di distanza dall’operazione “Piombo Fuso” – all’origine del rapporto Goldstone, assai duro nei confronti di Israele – si è avuta a gennaio una crisi diplomatica con la Turchia durante la quale Israele ha umiliato pubblicamente l’ambasciatore di Ankara, ricevuto su un divanetto che lo obbligava a guardare dal basso in alto un corrucciato Ayalon. Quasi negli stessi giorni, l’utilizzo di passaporti falsi – appartenenti a cittadini britannici, irlandesi e australiani – da parte del commando che aveva eliminato Mahmoud al-Mabhouh a Dubai causava un’ondata di reazioni indignate e l’espulsione di alcuni diplomatici israeliani coinvolti nella falsificazione dei passaporti da Gran Bretagna e in Australia. Quando a marzo il vice di Obama Joseph Biden è arrivato in Israele per riannodare i fili del negoziato è stato accolto dall’annuncio dell’espansione dei quartieri ebraici a Gerusalemme Est; rientrato a Washington, Biden non ha rinunciato ad una velenosa stilettata quando ha dichiarato ad una folta platea di giornalisti di sentirsi sollevato dopo il suo ritorno in un luogo dove “un boom edilizio costituisce una buona notizia”. Appena prima dell’episodio della flotta “Free Gaza”, il ministero dell’Interno ha impedito l’ingresso in Cisgiordania a Noam Chomsky – invitato all’università palestinese di Bir Zeit – cercando poi di fare retromarcia riferendosi a non meglio precisati “equivoci” intervenuti al momento.

Altri episodi meno presenti sulle prime pagine dei nostri giornali – quali per esempio il giro di vite sui cooperanti stranieri che lavorano in Cisgiordania – completano un quadro che è difficile interpretare come la somma di singoli passi falsi. I razzi Qassam certo non sono un’invenzione; la linea del nuovo governo turco è senza dubbio più attenta agli umori del mondo arabo e islamico; Mahmoud al-Mabhouh era sicuramente un obbiettivo militare e l’indignazione internazionale è stata determinata probabilmente più dal fatto che gli agenti del Mossad siano stati scoperti che non dall’assassinio in sè; e così via. In mezzo a tante situazioni diverse – ciascuna con il suo sfondo specifico – la costante è però l’atteggiamento intransigente di Israele, pronto a rispondere in modo sproporzionato ad ogni minaccia (vera o presunta) e fermamente intenzionato a rigettare qualsiasi tipo di critica al proprio operato.

È difficile credere che – persino dal punto di vista israeliano – l’aspetto più inquietante di questo sia la ricaduta negativa sull’immagine di Israele, o sui fragili negoziati in corso. Lo spericolato filotto diplomatico israeliano sembra invece restituirci un paese in preda ad una crisi di nervi e nello stesso tempo risoluto a considerare le proprie nevrosi come l’unico metro di giudizio possibile, chiuso – in nome di una nozione di sicurezza che ha ormai fagocitato qualsiasi ambito della vita nazionale – ad ogni tipo di confronto persino con gli alleati di sempre.

L’unica logica – a volerne trovare una – che si può ipotizzare dietro ad un tale atteggiamento è una logica perversa, che assomiglia molto a quella esposta dal misterioso Z. intervistato da Amos Oz (ma per alcuni si tratterebbe semplicemente una creazione letteraria) dopo la guerra del Libano: “Se anche tu mi provassi in modo inoppugnabile che la guerra in Libano è stata sporca e immorale, non me ne importerebbe nulla. Se anche tu provassi che non abbiamo raggiunto nessuno dei nostri scopi […] ancora non mi importerebbe […]. Sai perché ne sarebbe valsa comunque la pena? Perché sembra che questa guerra ci abbia reso più impopolari nel cosiddetto mondo civilizzato […]. Forse ora il mondo inizierà a temermi invece di compatirmi. Forse inizieranno a tremare davanti alla mia follia invece di ammirare la mia nobiltà d’animo […]. Lasciamo che pensino che siamo un paese di pazzi, pericolosi per i loro vicini, squilibrati; che potremmo impazzire definitivamente se uno dei nostri figli – anche uno solo! – viene ucciso. Che potremo impazzire e bruciare ogni pozzo di petrolio nel Medio Oriente […]. Lasciamo che siano consapevoli – a Washington, Mosca, Damasco o in Cina – che se si spara ad uno dei nostri ambasciatori […] potremmo scatenare la terza guerra mondiale in men che non si dica”.

Come ha ricordato Janiki Cingoli, direttore del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, “a coloro che vuol perdere, Dio prima toglie loro il senno”. Molti analisti e politici sottolineano il pericolo che le armi atomiche cadano in mano a regimi “irrazionali” come la Repubblica Islamica iraniana di Ahmadinejad; secondo Netanyahu “non si dovrebbe permettere ad una setta ispirata da un messianesimo apocalittico di controllare armi atomiche. Quando il credente dagli occhi spiritati acquisisce il le leve del potere e controlla armi di distruzione di massa, allora l’intero mondo dovrebbe iniziare a preoccuparsi, e questo e ciò che sta accadendo in Iran”. La perdita del senno di Israele – che la bomba ce l’ha già e ha indicato la sua ferma intenzione di impedire ad ogni costo all’Iran di acquisirla – dovrebbe turbare i nostri sonni forse più delle dichiarazioni di Ahmadinejad sulla distruzione dell’“entità sionista”.

NOTE SULL'AUTORE 

Marco Allegra

Ricercatore post-dottorato presso l'Instituto de Ciências Sociais de Universidad de Lisboa (ICS-UL), Portogallo. Il suo principale interesse di ricerca include la politica mediorientale e il conflitto israelo-palestinese, la geografia politica e l'analisi politica critica. 

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