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L’Analisi

Hamas-Israele: 3-0

di Victor Magiar

Data pubblicazione: 7 giugno 2010

Superata la fase della reazione emotiva, già segue quella della propaganda e molti cori intoneranno gli argomenti di sempre, per dire che è tutta (e sempre) colpa di Israele o per sostenere che è tutta (e sempre) colpa dei terroristi (leggi: Hamas/palestinesi).
Ma se si vuole veramente capire, di buona norma, bisogna partire dal risultato della vicenda Freedom Flotilla, e, con disincanto e lucidità, prendere atto della vittoria totale e globale del nuovo fronte islamista.
Tre le gravi conseguenze politiche (e militari) per Israele che converrà elencare in buon ordine.
1
Il blocco della Striscia di Gaza non c’è più: questo è il primo ed evidente successo di Hamas che apparirà davanti al proprio popolo come una forza vincente e credibile. La strategia della chiusura della Striscia voluta da Israele (con l’aiuto egiziano e con il tacito assenso occidentale) serviva a delegittimare Hamas e imporre una linea internazionale di isolamento del fronte estremista islamico: invece Hamas e Turchia escono vincenti su tutta la linea.
2
Il ruolo di Israele nella NATO ridimensionato: questo secondo aspetto, poco considerato dai mass media, è di una gravità incalcolabile per Israele. Mentre all’ONU si sono trovate mediazioni, in una riunione d’urgenza della NATO reclamata dalla Turchia, si è arrivati ad una risoluzione che equivale tanto ad una condanna che ad un ammonimento. I colleghi in divisa di Tzahal hanno chiesto (e imposto) il rilascio immediato di tutti gli attivisti e la restituzione delle imbarcazioni. È stata questa la più evidente dimostrazione della potenza della Turchia riconosciuta come elemento fondamentale dell’Alleanza e della nuova condizione di Israele quale “alleato problematico”. È assai probabile che la mediazione all’ONU sia stata possibile grazie alla dura presa di posizione della NATO, che ergendosi da arbitro fra due alleati, ha emesso di fatto un verdetto politico.
3
L’isolamento di Israele dalle cancellerie e dall’opinione pubblica europee: solo gli Stati Uniti hanno realmente lottato per aiutare Israele a contenere i danni, mentre le cancellerie europee, anche quelle tradizionalmente più filo-israeliane, hanno non solo condannato il blitz navale, ma hanno avanzato richieste di cambiamento di linea politica e di comportamenti “solo” a Israele. Nessuno ha avanzato critiche o fatto richieste a Hamas o alla Turchia, anzi, il ministro Frattini ha preso come esempio da imitare il comportamento di Abu Mazen.
Queste le tre principali e più gravi conseguenze, ma ne vanno considerate altre che ci permettono di intravedere le nuove difficoltà che Israele dovrà affrontare.
1
Trattative in salita per Israele: Abu Mazen, invece di scegliere lo scontro ha optato per insistere sulla via diplomatica. Non si tratta di bontà d’animo, ma di un calcolo vincente, perché oltre a guadagnare il plauso occidentale sa che ora, al tavolo delle trattative, Israele è più debole.
2
Cambio di linea politica dei palestinesi: vincere senza sparare un colpo. Dentro Hamas si sta affermando la linea di chi, imitando Fatah degli anni ’90, sostiene una strategia di lotta alternativa a quella dello scontro militare diretto. Le sei navi di Freedom Flotilla sono riuscite ad ottenere ciò che Hamas non era riuscito a fare con il lancio di migliaia di missili, cioè rompere l’embargo israeliano. Cioè la politica per “provocare” ed isolare Israele.
3
Minor controllo su Gaza: le porte aperte sono quelle egiziane. Finché la Turchia terrà duro, sarà l’Egitto a controllare le merci dirette a Gaza mentre, in termini di sicurezza e di rapporti di forza, sarebbe stato meglio per Israele far usare i propri valichi.
Ciò che più preoccupa (soprattutto Washington e, spero, Gerusalemme) è che la vittoria del nuovo fronte islamista non sia un fatto regionale, ma abbia una portata globale tale da cambiare le carte sul tavolo.
Solitamente chi ha voluto assumere il ruolo di leader nella regione ha fatto propria la cosiddetta “causa palestinese”: solitamente si è trattato di dittatori arabi ma poi è venuto il tempo dei leader mussulmani non-arabi, prima Ahmadinejad ed ora Erdogan.
Ma la differenza fra questi ultimi due è che il secondo non è un dittatore, ma il leader di un paese semi-europeo, di importanza vitale per la difesa degli interessi occidentali. È ormai chiaro che la Turchia è determinata ad assumere un ruolo di leadership su scala globale del variegato mondo musulmano, in virtù sia del suo retaggio storico che della sua condizione geopolitica, a cavallo di quattro aree di influenza (Europa, Mediterraneo, Asia continentale e Medio e Vicino Oriente).
Ed è altrettanto evidente quindi che da oggi in poi Israele troverà dall’altra parte del tavolo, accanto ai palestinesi, la Turchia: cambierà tutto, dai rapporti di forza a tutto l’armamentario politico e di comunicazione. Abituati ad avere per anni nemici fanatici e antidemocratici, gli israeliani faticheranno non poco a misurarsi con una controparte così politicamente solida e strutturata.
Forse l’unico ad avere capito in anticipo la costruzione del nuovo equilibrio è stato il presidente statunitense: sin dalla sua investitura, Obama ha iniziato ha costruire un nuovo rapporto con il mondo musulmano fondato sulla fiducia e il rispetto, condizione necessaria per recuperare una forza di mediazione reale fra Israele e il mondo arabo.
È questo un fatto cristallino assolutamente frainteso dai politici israeliani e da buona parte della leadership della diaspora ebraica europea, annebbiata da preconcetti e sospetti.
Rimane il fatto che l’unico sostegno di Israele rimangono gli USA, che hanno speso con discrezione notevoli energie negoziando una soluzione dell’attuale crisi con la Turchia, sia in sede NATO che in sede ONU.
Obama rimane un sicuro alleato di Israele non solo perché sa che lo stato ebraico, per sua natura culturale e politica, è l’unico paese simile agli USA, ma anche per la sua personale formazione politica molto legata ai valori ebraici tanto da trarre dall’esperienza sionista il suo modello di politica sociale.
Sarà bene che la leadership israeliana abbandoni i paradigmi politici e psicologici degli ultimi vent’anni: nell’era della globalizzazione l’idea dell’autosufficienza non calza più per nessun paese moderno e democratico. Il conflitto mediorientale, non solo simbolicamente, è da tempo un conflitto di scala globale e Israele, per garantire la sua sicurezza e per salvare la propria identità democratica ed ebraica, non può pensare di fare a meno dl resto del mondo e tanto meno di Obama.

NOTE SULL'AUTORE 

Victor Magiar 

Assessore alla Cultura dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Di origini libiche, vive in Italia dal 1967, dove nel 1988 è stato tra i fondatori del Gruppo Martin Buber - Ebrei per la pace. Dal 1993 al 2001 è stato consigliere comunale di Roma, delegato dal sindaco per le politiche di educazione alla pace e di solidarietà e cooperazione internazionale.

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