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L’Analisi

La strada stretta di Netanyahu

di Antonio Ferrari

Data pubblicazione: 25 marzo 2010

Quando, una ventina d’anni fa, un gruppo di giornalisti chiese a Giulio Andreotti quanto tempo mancasse, a suo avviso, al raggiungimento della pace fra israeliani e palestinesi, il navigato leader rispose con due taglienti e significative battute. La prima: «Temo proprio che non vedrò la pace in questa vita». La seconda: «Sospetto che non la vedrete neanche voi». Cinismo? Forse. Però l’uomo che conosce tutti i fumosi labirinti della politica italiana e ha indubbiamente una vasta esperienza internazionale, riassumeva uno stato d’animo diffuso e percepito, anche oggi, non soltanto dagli osservatori più attenti ma dalle due parti: dai protagonisti di questo conflitto tra due diritti, impossibile da risolvere senza un compromesso.

Israele, che di sicuro è la democrazia più vera e consolidata dell’intero Medio Oriente, si nutre infatti di un paradosso: oltre il 70 per cento della popolazione è favorevole, quasi da sempre, ad un accordo con i palestinesi, con i quali è e sarà costretta a convivere; ma finora nessun governo, a parte qualche rara eccezione, si è mai spinto con determinazione ad affrontare di petto il problema. Ci aveva provato Ben Gurion, dopo la guerra dei Sei giorni (1967) invitando a restituire subito i territori che erano stati occupati, per scongiurare guai futuri (saggia profezia). Ci ha provato Yitzak Rabin, con gli accordi di Oslo, che riconoscevano l’Olp di Arafat e aprivano la strada al futuro stato palestinese. Rabin è stato ammazzato al culmine di una campagna d’odio perché aveva osato spingersi troppo avanti.

Per il resto ci sono stati sussulti, promesse e qualche speranza, magari motivata da avvenimenti importanti (Ehud Barak e gli incontri con Yasser Arafat a Camp David), ma ormai più che pensare ad un accordo vero si punta a non seppellire la speranza di poterlo trovare, che è già un’ardua impresa. È vero che Ariel Sharon aveva deciso il ritiro unilaterale da Gaza con lo smantellamento degli insediamenti, ma nessuno può dire se il premier avrebbe poi proseguito l’opera, affrontando il nodo della Cisgiordania. C’è stata la parentesi Ehud Olmert, buon numero due ma forse inadatto a responsabilità più grandi. E ora si ripropone l’enigma Benjamin Netanyahu. Nel ’96, quando vinse le elezioni per un soffio, sconfiggendo il grande favorito Shimon Peres (che era l’erede del martire Rabin), cominciò a presentare la sua immagine bifronte: duro come alcuni falchi del suo partito, ma disponibile a qualche passo conciliatorio (Wye Plantation, sulla restituzione di Hebron). Ruvido sulle concessioni, ma capace con il suo inglese perfetto di sedurre la potente opinione pubblica americana. Alla fine, fu sconfitto proprio dalle sue contraddizioni, e forse anche dal ruolo di una moglie (Sara) troppo invadente.

Sembrava finito, non ne volevano sentir parlare neppure i suoi compagni di partito. Eppure in Israele mai dire mai. Bibi è tornato. Non in maniera limpida, vincendo le elezioni dell’anno scorso, ma arrivando a un passo dal traguardo, superato sul filo di lana, per un solo deputato in più, dall’astro nascente della politica israeliana, la volitiva Tzipi Livni, al comando del partito centrista Kadima, fondato da Sharon.

Netanyahu, che a guardarlo bene, sembra un’attempata e corpulenta sintesi tra un micio e un macho, ha accettato tutti i compromessi possibili: con l’estrema destra di Avigdor Lieberman, con i coloni più oltranzisti, con i religiosi. Convinto (lo è sempre stato) di avere tutti gli strumenti per sedurre, ancora una volta, il principale alleato: gli Stati Uniti d’America. All’inizio, più che agli Usa, Bibi si è concentrato sui troppi fermenti e sulla stanchezza del suo paese, che in realtà non l’ha mai veramente amato. Per vincere la diffidenza del suo popolo, il premier equilibrista ha portato nel governo il leader laburista Ehud Barak, consegnandogli il ministero della Difesa. In realtà Barak svolge due lavori: oltre alla Difesa fa anche il ministro degli Esteri aggiunto, perché il ministro degli esteri vero, Lieberman, è così imbarazzante e impresentabile, con il suo razzismo strisciante e le sue dichiarazioni inopportune, che si preferisce evitargli brutte figure e magari qualche seria crisi. Per Lieberman il ministero si affanna a organizzare missioni (a volte improbabili) in Africa a getto continuo. Negli Stati Uniti, con Netanyahu, ci sarà invece Barak.

Stavolta la missione è delicata, anzi delicatissima. Primo, perché Bibi non aveva probabilmente calcolato il carisma, la determinazione e l’orgoglio del nuovo presidente Barack Obama, pensando ancora ai bei tempi di Bush; secondo, perché il ceffone dato al vicepresidente Joe Biden, ricevuto a Gerusalemme per rilanciare il processo di pace e accolto dall’annuncio che Israele avviava un altro piano di colonizzazione: 1600 alloggi, nella zona araba della città, da riservare a giovani coppie ebraiche; terzo, perché ad Obama la politica muscolare non piace, e quella della guerra preventiva ancora meno.

È pur vero che i rapporti tra Usa e Israele sono talmente profondi da non temere neppure una crisi. Ma è anche vero che Washington ha tanti variegati interessi nella regione e, come ha detto il generale Petreus, il militare più potente e influente del paese, c’è il rischio che possano essere messi in pericolo da una posizione troppo appiattita su Israele. Ecco perché Bibi si gioca tutto. Sa che ostacolare la volontà di Washington, che vuol giungere in fretta a negoziati per vedere la nascita dello stato palestinese, sarebbe esiziale per lui e per il suo governo. E a questo punto dovrà dar fondo a tutte le sue doti diplomatiche, magari promettendo qualche passo concreto. In Israele si dice che potrebbe maturare il tentativo di coinvolgere il partito Kadima, eliminando dalla maggioranza i partiti meno presentabili. Ma questo fa parte del prossimo futuro. Il presente dice che occorre tendere la mano, con i fatti e non solo con le parole, ai palestinesi. Altrimenti i rischi di una nuova intifada non sarebbero più un’ipotesi ma una certezza.

Netanyahu dovrebbe tener presente che esiste, appunto, un conflitto tra due diritti, e che in questi casi – come sosteneva Norberto Bobbio – è essenziale il ruolo del terzo. E chi, se non gli Stati Uniti? Si pensava anche all’Unione europea, che però appare troppo divisa. Quindi, Washington è più che mai essenziale. Ma se Bibi pensa che si può schiaffeggiare impunemente un vice-presidente americano e poi far finta di niente, ha sicuramente fatto male i suoi calcoli.

NOTE SULL'AUTORE 

Antonio Ferrari

Giornalista e scrittore, nato a Modena nel 1946. Ha cominciato come cronista al «Secolo XIX» di Genova, e dal 1973 è al «Corriere della Sera»: inviato speciale ed editorialista. Dopo aver seguito gli anni del terrorismo italiano, con le trame nere e rosse, è passato all'estero. Prima in Europa e nei Paesi dell'Est comunista, per approdare nei Balcani, nel Medio Oriente e in Nord Africa. Ha seguito quasi tutte le crisi di queste regioni, le guerre, i tentativi di pacificarle. Ha intervistato, nel corso degli anni, quasi tutti i leader di un'area estesa ed estremamente variegata. È membro del Comitato scientifico del CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) e di Gariwo (La foresta dei Giusti).

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