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L’Analisi

Sinistra e questione ebraica

di Umberto Ranieri

Data pubblicazione:21 febbraio 2007

Molto è cambiato nel rapporto con Israele anche in quella parte della sinistra italiana che ha avuto origine dal Pci e che oggi costituisce, con i Ds, la forza fondamentale della sinistra di ispirazione socialista in Italia.
Sofferto e aspro fu il rapporto della sinistra di tradizione comunista con Israele. La sua difficoltà a comprendere il fenomeno storico israeliano è in gran parte da ricondurre all’incapacità del marxismo di analizzare insieme il sentimento nazionale e quello religioso. Due elementi che, secondo François Furet, andrebbero considerati per interpretare la storia di Israele. Elementi che il marxismo, in tutte le sue varianti, ha teso a sottovalutare e ignorare.
In realtà, osserverà Furet, la creazione dello Stato ebraico nel bel mezzo del ventesimo secolo in Palestina rimarrà un avvenimento non facile da capire continuando a seguire una canonica interpretazione materialistica della storia. Certo, il fattore religioso è stato decisivo nei secoli di diaspora per preservare l’identità ebraica; “alla vigilia dell’epoca moderna” scrive Giorgio lsrael “nessun ebreo poteva sentirsi tale se non per il legame più o meno intenso con una cultura e una tradizione religiose, ma nessuna forma di pensiero o di fede può resistere senza entrare in circolo nella corrente complessiva del pensiero”. L’ebraismo è sopravvissuto perché non si è ridotto a una precettistica ma è stato un fattore vitale e propulsivo della cultura europea sia nel Medioevo che nel Rinascimento, fino alle soglie dell’epoca moderna. È questa complessa vicenda che stenterà a capire un marxismo ossessionato dall’identificazione dell’ebraismo con il capitalismo finanziario.
Una ossessione tale da condurre allo schema secondo il quale il militante ebreo avrebbe dovuto annullare in se stesso ogni legame con la sua ebraicità. Tra gli anni della guerra e i primi anni Cinquanta il sentimento nazionale ebraico non costituirà tuttavia un fattore di difficoltà nel rapporto del movimento sionista con la sinistra comunista. L’Unione Sovietica sarà uno dei primi paesi a riconoscere Israele quando, il 29 novembre del 1947, l’ideale sionista sembrò trovare attuazione. Quel giorno centinaia di migliaia di ebrei in Palestina si sintonizzarono con ansia febbrile sulle radio per conoscere la decisione dell’assemblea dell’Onu. Non era scontato che sarebbe passata la decisione di dividere la Palestina in uno stato ebraico e in uno stato arabo. La posizione delle grandi potenze rimase ambigua fino all’ultimo: mentre la Gran Bretagna si astenne dal voto l’Unione Sovietica si pronunciò per una divisione della Palestina probabilmente allo scopo di eliminare l’influenza britannica nell’area; gli Stati Uniti, che nei decenni successivi sarebbero stati i più stretti alleati di Israele, esitarono a lungo prima di acconsentire alla spartizione territoriale.
La risoluzione dell’Onu tuttavia fu applicata solo allo Stato di Israele: lo Stato arabo-palestinese non venne realizzato perché gli eserciti degli stati arabi attaccarono il nuovo vicino ancor prima che ne venisse decretata la nascita; i territori destinati allo Stato palestinese, sulla sponda occidentale del Giordano, vennero annessi dalla Transgiordania mentre l’Egitto occupò la striscia di Gaza.
Dopo la guerra del 1948-1949 Israele imparò a vivere in uno stato di precarietà e di tensione continuo. Furono anni, quelli successivi al 1948, in cui crebbe la tensione tra Israele e i suoi vicini arabi con continui incidenti ai confini e un aumento di violenza alle frontiere. È del 1956 il principale e grave errore della politica estera israeliana, quando le truppe di Ben Gurion sostennero i paracadutisti francesi contro l’Egitto di Nasser; l’azzardo militare del 1956 consentì tuttavia ad Israele, pur privata delle sue conquiste dagli americani, di poter contare negli anni successivi su confini relativamente più sicuri.
Israele entrò negli anni Sessanta, avendo raggiunto uno standard di vita non distante dai paesi dell’Europa del sud, mentre la maggior parte degli israeliani credette che il proprio paese avesse superato la fase pionieristica. Furono previsioni sbagliate.
In quegli anni nacque nei campi in cui furono sistemati i rifugiati palestinesi un nazionalismo amaro e irredentista e prese il via un processo che condusse a un loro risveglio politico con l’emergere della figura di Yasser Arafat.
Falliranno in quegli anni i tentativi velleitari di unificare il mondo arabo, permarranno rivalità tra Egitto, Siria, Iraq, dove giungono al potere i partiti baathisti, ma crescerà anche tra gli arabi la spinta a riaprire il conflitto con Israele per ottenere la rivincita sul 1948. In quella fase, nella sinistra comunista prevalse la convinzione che le prospettive progressiste in Medio Oriente dipendessero dal consolidamento di un nazionalismo arabo che si dichiarava, tra l’altro, socialista e antimperialista. Una scelta che si spiegava, almeno in parte, con la logica della guerra fredda, con il permanere nella politica del Pci verso il Medio Oriente dell’influenza delle posizioni sovietiche.
In questo quadro si giungerà alla “Guerra dei sei giorni” che avrà conseguenze altrettanto decisive di quelle del 1948-1949.
Un paese che si era sentito accerchiato e minacciato fino a pochi giorni prima diventerà la potenza militare decisiva della regione. In realtà, il controllo della popolazione arabo-palestinese che vive nei territori occupati alla lunga costituirà il più grave problema di politica interna per Israele.
In quella fase prevarrà nel Pci la vulgata sovietica, che riduce Israele ad un punto di forza dell’imperialismo, ignorando del tutto i propositi e le minacce di distruzione di Israele da parte dei paesi arabi circostanti.
Del resto, l’accusa al sionismo di essere un’impresa coloniale sarà un luogo comune della problematica riguardante il Terzo Mondo, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Un’accusa grave, che nega le ragioni stesse per le quali è stata concepita la creazione di uno Stato Ebraico.
Non mancherà, nel gruppo dirigente del Pci, chi sosterrà con giudizi perentori il cosiddetto carattere coloniale di Israele. L’aspetto più grave è che in questo modo è la stessa decisione dell’Onu del 1947 ad essere messa in discussione. E si torna per questa via alla questione di fondo: cosa fu il sionismo?
Il sionismo fu il disegno teso a riscoprire le radici nazionali dell’identità ebraica.
Il punto da cui la sinistra deve partire oggi è che la legittimità di Israele si fonda sul dato storico che lo Stato di Israele fornisce una soluzione alle aspirazioni nazionali del popolo ebraico e anche un possibile riparo agli ebrei esposti alla furia dell’antisemitismo in Europa e nel mondo. Una legittimità che sarà sanzionata dagli organismi internazionali.
Non c’è dubbio che il sorgere di Israele avrà delle conseguenze penose per i palestinesi: la guerra del 1948-1949 provocherà la loro fuga in massa e centinaia di migliaia saranno i profughi. Ma non si può negare che ci sia stato un uso politico dei profughi da parte di paesi arabi che non hanno mosso un dito per sostenere un processo di integrazione, che si sono ben guardati dal promuovere la costruzione (come previsto dalla risoluzione dell’Onu) di uno Stato Palestinese contiguo a quello Israeliano, che hanno lasciato che covasse nei campi profughi l’odio contro Israele e lo spirito di rivincita; drammatici problemi che possono essere sanati solo, come è stato saggiamente scritto, con l’esercizio della ragione e del pragmatismo. La rivendicazione cinquant’anni dopo la costituzione di Israele, di un ritorno di tutti i profughi palestinesi, inclusi i loro discendenti, nei luoghi esatti di origine è una prospettiva irrealistica che porterebbe al dissolvimento di Israele.
Negli anni successivi alla guerra del Kippur del 1973, quando si cominciò a incrinare il mito di Israele sempre vittorioso, le posizioni del Pci conosceranno una netta evoluzione rispetto a quelle sostenute a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Nelle relazioni di Enrico Berlinguer al XIV e al XV congresso del Pci, nel 1972 e nel 1975, la contrarietà alla politica di Israele non si tradurrà in una demonizzazione del sionismo, malgrado siano anni in cui il sionismo come sinonimo di nemico è parte del più cupo lessico sovietico. Non mancheranno ancora incertezze. Profonda fu la freddezza con cui il Pci guardò agli accordi di Camp David del 1978 che portarono nel marzo del 1979 alla pace tra l’Egitto di Sadat e Israele di Begin; ma nel complesso, nel Pci di Berlinguer la critica alla politica israeliana si mantenne sul piano della politica internazionale. Questo mentre, in particolare dopo la tragica avventura del Libano del 1982 voluta da Sharon, la condanna alla politica dei governi israeliani rischierà di trasformarsi sempre di più in una demonizzazione dello Stato di Israele tesa a metterne in discussione la legittimità e l’esistenza.
Una tappa fondamentale in questo processo fu l’approvazione all’assemblea dell’Onu della risoluzione del l0 novembre 1975, in cui si sosteneva che il sionismo fosse una forma di razzismo e, crudelmente, qualcuno giunse a imputare agli ebrei di fare le stesse cose di cui erano stati vittime. Un tale processo degenerativo non si arrestò facilmente se ancora nell’autunno del 2001, alla Conferenza contro il razzismo promossa dalle Nazioni Unite, gli israeliani subirono una sorta di linciaggio razziale nel tentativo di imporre nei loro confronti la vecchia equazione, sionismo uguale razzismo, abbandonata dalle stesse Nazioni Unite. Il Pci rifiutò già nel 1975 di accodarsi alla campagna antisionistica, sia quella di origine araba sia quella promossa da alcuni paesi del blocco sovietico e prese posizione, come tutte le forze democratiche italiane, contro il voto dell’Onu del 1975. Certo si esaurì solo col tempo il ricorso a formule propagandistiche sul conto di Israele, ma era ormai maturo uno sviluppo ulteriore della strategia del Pci. Con le missioni in Israele di Giorgio Napolitano nell’ottobre del 1986, e successivamente di Occhetto e di Fassino, si giungerà ad una ridefinizione della linea del Pci in termini di apertura verso le esigenze di vita e di sicurezza dello Stato di Israele, di ricerca di una soluzione del conflitto sulla base di un reciproco riconoscimento del popolo palestinese all’autodeterminazione e del diritto di Israele a non venir messa in questione e minacciata nella propria esistenza. La svolta nei confronti di Israele si compirà del tutto nel convegno di eccellente livello tenuto a Milano, sul tema “Sinistra e questione ebraica”, promosso da Janiki Cingoli. Il convegno affrontò anche sul terreno culturale la tematica dell’antisionismo come travestimento dell’antisemitismo, con il determinante contributo di Shlomo Avineri, intellettuale israeliano studioso di marxismo e sionismo.
Pds e Ds sosterranno gli sforzi internazionali in direzione di una ripresa del processo di pace. Guarderanno con trepidazione e speranze alle intese di Madrid e di Oslo, soffriranno per l’assassinio di Rabin, l’uomo di pace che sapeva fare la guerra. Dopo il fallimento di Oslo non ci sarà una regressione politica tra i Ds nel giudizio e nei rapporti con Israele.
I Ds guarderanno con rammarico al fallimento dei negoziati di Camp David tra Barak e Arafat, voluti da Clinton nel 2000 e considereranno un errore di Arafat il rifiuto dei “parametri” presentati a dicembre da Clinton.
Apparve allora che Arafat non era più in grado di scegliere una strada diversa dalla linea del rifiuto ad oltranza e che si era ormai esaurita la sua leadership, in un contesto di degrado e corruzione diffusa nella vita della Autorità nazionale palestinese, che avrebbe aperto spazi ai gruppi oltranzisti come Hamas.
Sbagliarono i Ds insieme alla gran parte dei partiti socialisti europei a non porre già allora il problema di una svolta negli indirizzi e nella leadership del movimento palestinese rispetto a quella usurata di Arafat. Gli anni successivi saranno segnati da ulteriori tensioni e violenze.
I Ds sosterranno la necessità della ripresa del dialogo, il valore della Road Map, auspicheranno un ruolo dell’Europa e una responsabilità maggiore degli Stati Uniti nella vicenda mediorientale. E sapranno guardare con interesse e poi con esplicito sostegno alle novità che lo stesso Sharon produrrà da primo ministro, con la decisione del ritiro da Gaza.
La politica dei Ds verso il Medio Oriente è oggi limpidamente volta a sostenere una soluzione equilibrata in cui per entrambi i contendenti sia possibile finalmente un avvenire di pace, di sicurezza e di democrazia.

NOTE SULL'AUTORE 

Umberto Ranieri

Già Presidente della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati

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