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L’Analisi

Il problema non è la critica ma gli stereotipi

di David Meghnagi

Data pubblicazione:21 febbraio 2007

“Chi vive in un’isola deve farsi amico il mare”, così recita un antico proverbio arabo. Israele è una piccola isola accerchiata da un oceano arabo e islamico ostile, che non ne ha mai realmente accettato l’esistenza. Farsi amico quel mare, aprirsi un varco nel cuore degli abitanti di quel oceano, è per Israele una necessità. Accettare l’esistenza di quella isola è per l’Islam la condizione per rompere la catena di violenze e lutti in cui è tragicamente avviluppato.
Il rifiuto di Israele, la sua trasformazione in Stato paria giudicato in base a criteri che non si applicherebbero a nessun altro Stato è il sintomo di un fallimento dei rapporti fra l’Europa e il mondo arabo, l’Occidente cristiano e l’Islam. Non è qui in discussione il diritto dovere alla critica di questo o quel governo israeliano, come di ogni altro governo del mondo, perché la critica è il sale della democrazia. È qui in discussione la forma che la critica assume, le metafore cui attinge, le immagini e gli stereotipi di cui si alimenta in un perverso gioco di equazioni simboliche in cui le vittime di ieri assumono le sembianze dei carnefici di oggi. Per non parlare della falsificazione e lo stravolgimento dei fatti al punto in cui non si sa quale sia veramente l’oggetto del discorso.
Come dimostrano gli inquietanti sviluppi della politica nucleare iraniana, il diritto di Israele ad esistere entro confini sicuri internazionalmente riconosciuti, la sua sicurezza, è la condizione stessa della possibilità del dialogo fra l’Occidente e l’Islam. È la condizione per una composizione storica, politica e morale dei conflitti che insanguinano la regione. Senza Israele il dialogo tra Occidente e Islam non sarebbe nemmeno pensabile. L’Europa e il mondo arabo, l’Occidente e l’islam potranno tornare a parlarsi, se Israele pacificato col mondo arabo è presente fra loro come testimone dei loro e dei propri lutti. Mai come oggi il futuro del mondo arabo e del popolo palestinese è apparso intrecciato con quello della sicurezza degli israeliani.
È un dato da cui partire contro ogni semplificazione della tragedia di un conflitto di aspirazioni che data ormai un secolo.
Israele appare ai suoi amici, come ai suoi nemici, un pezzo d’Europa trapiantato in Oriente. La realtà è diversa, più complessa di quanto non appaia ad una prima e semplicistica lettura. Per quel che valgono delle metafore, utilizzate spesso come schermo per occultare e confondere, geograficamente, culturalmente e simbolicamente, Israele contiene l’Oriente come l’Occidente. È Occidente nella misura in cui i padri fondatori del sionismo si ispiravano a una visione dello Stato e della rinascita nazionale che traeva linfa dalle ideologie dominanti dell’Ottocento; portando con sé un pezzo di Europa nel Vicino Oriente ne avevano accelerato la presa di coscienza politica e nazionale. È Oriente perché in quella “striscia di terra madre” della civiltà monoteista, che separa l’Oriente dall’Occidente, l’ebraismo ha preso corpo e si è sviluppato per oltre un millennio a contatto con l’Oriente profondo. Per non parlare delle tante diaspore che hanno segnato la Diaspora con i suoi forzati spostamenti e le sue invenzioni creative che ne hanno reso possibile la sopravvivenza nei secoli.
Il sionismo aspirava a fare degli ebrei un popolo come gli altri, a edificare uno stato ebraico come gli altri stati. L’esito paradossale di questa impresa è stato di avere uno Stato “diverso” dagli altri. Lo Stato degli ebrei è diventato l’ebreo degli Stati, e gli ebrei i suoi ambasciatori in ogni luogo del mondo, non solo agli occhi dei nemici di ieri e di oggi, degli antisemiti vecchi e nuovi, ma anche degli amici più sinceri, che ne difendono l’esistenza.
L’ambivalenza con cui l’Europa guarda a Israele è il sintomo di un rapporto irrisolto col suo passato più recente e antico. La tentazione che talvolta traspare in maniera strisciante e non del tutto esplicita di farne a meno, peggio, di abbandonarlo al suo destino, è un grave sintomo di fuga dalle responsabilità della politica, segno di un’incomprensione profonda della posta in gioco oggi nei rapporti fra civiltà e culture, Stati e nazioni, democrazia e convivenza tra i popoli. Il debito che l’Occidente ha verso Israele va oltre le tragedie che hanno insanguinato il secolo che si è appena chiuso. Difendendo l’esistenza d’Israele, l’Europa difende in realtà l’unica immagine credibile di un suo futuro possibile. Sulla questione dell’esistenza di Israele è gioco l’identità stessa dell’Europa, la sua credibilità e dignità. La questione riguarda anche il mondo arabo e islamico e gli stessi palestinesi. Mai come oggi i destini della civiltà araba, e dei palestinesi sono apparsi così strettamente interconnessi col destino di Israele. Se Israele fosse distrutto, il baratro si aprirebbe per tutti.
Non è un caso se dopo la svolta della Bolognina il primo viaggio del neosegretario del PDS è stato Israele e i territori palestinesi. Andare lì significava misurare l’atteggiamento verso la questione ebraica e la tragedia del conflitto arabo israeliano, la capacità di superare i vecchi schemi manichei indotti dalla logica della guerra fredda e dalla subalternità alla politica sovietica. Era su questo che si poteva misurare la credibilità del un progetto politico di ricostruzione dell’identità della sinistra italiana dopo gli eventi dell’89. Avere compreso tutto questo fu un merito di chi organizzò quel viaggio.
Non furono casuali in quel viaggio politico e culturale nemmeno i lapsus di cui segnalo uno per tutti: l’incapacità della troupe televisiva della terza rete di raggiungere in tempo la cerimonia in memoria di Umberto Terracini sul Monte Herzl. Raggiungere Gaza risultò più facile anche se il Monte Herzl era poco distante dall’albergo in cui risiedeva la delegazione italiana. Un piccolo lapsus particolarmente rivelatorio.
La società israeliana somiglia a un laboratorio postmoderno che ha sperimentato in profondità e con molto anticipo molti dei problemi che assillano oggi l’Europa. A non accorgersene sono gli europei che, dopo avere lungamente preteso di impartire lezioni agli israeliani sulla convivenza tra popoli diversi, scoprono con angoscia di non essere affatto avanti in fatto di tolleranza, e che molti dei problemi che pensavano di essersi lasciati per sempre alle spalle si sono violentemente riaffacciati, mostrando quanto fragili siano le costruzioni umane.

NOTE SULL'AUTORE 

David Meghnagi

Direttore del Master internazionale in didattica della Shoah Roma Tre, psicoanalista, prof. di psicologia clinica Roma Tre. 

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