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L’Analisi

Ebrei nella crisi

di Amos Luzzatto

Data pubblicazione:21 febbraio 2007

Il significato di questo titolo è chiaro: dopo la II guerra mondiale, dopo la lunga guerra fredda, con la polverizzazione del mondo ex-coloniale e l’emergere delle contraddizioni fra il mondo “ricco” e il mondo “povero”, il mondo, nella sua totalità, è alla ricerca di nuovi equilibri e di una nuova (relativa) stabilità, che non ha ancora definito. Per questo, siamo in crisi, in una crisi politica, culturale, forse anche delle religioni. Una crisi che stenta a prospettare vie di uscita e che minaccia ogni momento di votarsi a confronti violenti.
Gli ebrei sono dentro questa crisi, per due motivi.
Il primo motivo è una stanca ripetizione di esperienze passate. Vi sono dentro perché sono tuttora una presenza quasi ubiquitaria e comunque minoritaria: dunque, per definizione, in pericolo quando soffiano venti di crisi come in questi nostri giorni. Sono in crisi anche in Israele, nonostante rappresentino l’ottanta per cento della sua popolazione, perché immersi in un mare arabo-islamico molto più numeroso e in crescita demografica tumultuosa.
Vi sono dentro, poi, perché lo sviluppo di una società civile ebraica (non necessariamente come comunità religiosa), che alla metà del XX secolo si è fatta Stato, ha trasformato, consapevolmente o meno, l’identità degli ebrei, anche di coloro che appartengono alla società europea, a quella americana o a quella marocchina. Non è un problema di quella “doppia fedeltà”, che gli antisemiti di tutti i tempi brandiscono come arma o come accusa infamante. L’identità della gente, anche di quei razzisti che si ritengono puri, è sempre e ovunque un fenomeno composito e sicuramente sottoposta a una dinamica che la modifica di continuo. Non è neppure un difetto, al contrario: sta alla base delle speranze che tuttora possiamo coltivare che di qua e di là dei mari e dei monti che li separano i popoli possano un giorno riconoscere che sono più gli elementi che li fanno assomigliare di quelli che li rendono estranei.
È proprio per questo aspetto squisitamente ebraico di essere immersi nella crisi che si impone a noi una riflessione particolare.
Uno degli aspetti della crisi mondiale è stato il dissolversi delle “ideologie”. Ma pare che l’umanità non possa per ora fare a meno di mobilitarsi sotto le bandiere della verità, anche se le verità sembrerebbero numerose come le bandiere che le rappresentano. Ed oggi le bandiere che stanno emergendo, con sempre maggiore evidenza, sono quelle delle religioni.
Ma le religioni possono essere declinate in molte forme, anche in quella del dialogo fra coloro che si riconoscono in fedi diverse; e ne abbiamo importanti e apprezzabili esperienze.
Sfortunatamente però la forma che sta sempre di più guadagnando spazio è quella dei fondamentalismi. La politica parla più spesso di religiosi moderati contrapponendoli a estremisti. Ma è una terminologia fuorviante. Il fondamentalismo è la pretesa di riportare la propria religione alla purezza delle sue radici storiche, che sarebbero poi quelle che affermano di conoscere e che insegnano molti predicatori contemporanei. Si tratta di una purezza che esclude le altre e giustifica la violenza fisica o almeno la prepotenza morale; che non può accettare neppure la scienza moderna, che mette in discussione tutto, anche se stessa. Una purezza che spesso si trasforma in potere politico o quanto meno si offre come strumento efficace per un certo tipo di potere politico.
Che cosa possono fare gli ebrei? Anzi, una domanda preliminare: questa crisi potrebbe essere la premessa per un nuovo sterminio?
Cominciamo col dare una risposta alla domanda preliminare. Si, potrebbe succedere. La Shoah non è stata la pura ripetizione di un odio antico, quanto piuttosto la dimostrazione di poter adoperare questo odio secolare come strumento politico, che sterminando gli ebrei mira a edificare nuove tirannidi. La “compassione” per gli ebrei-vittime era un moto superficiale post-bellico e sta esaurendosi. E questo si giustifica oggi con il modello del popolo perseguitato che si è trasformato in persecutore. Non serve neppure molta fantasia. Non eravamo presentati, solo tre generazioni fa, come gli strozzini, gli assassini dei bambini cristiani, i profanatori delle ostie sacre?
Ma allora, che possiamo fare per impedirlo?
Io non intendo fornire una ricetta garantita da professionista. Ma scorgo l’importanza di due elementi che sono fra di loro strettamente intrecciati.
Il primo elemento: cercare alleati e non agire come lupi solitari. Questo significa il rifiuto di entrare a far parte di uno degli schieramenti che oggi si contendono l’egemonia della Terra o di parti importanti di essa. I nostri alleati naturali si trovano fra quelli che soffrono, quelli che ancora muoiono di fame, di sete e di AIDS, in un mondo nel quale si sta debellando il cancro e le malattie della vecchiaia, ma solo per i più fortunati che raggiungono un’età più avanzata perché godono di un benessere e di una ricchezza maggiore. Nel campo della solidarietà vi sono già iniziative di valore umano e politico. Pochissimi le fanno conoscere.
Il secondo elemento consiste nel non contrapporre fondamentalismi a fondamentalismi. Facendo così, si sceglie la sconfitta, fino dai primi passi. L’identità ebraica, con il Sionismo e con lo Stato è cambiata, è diventata variegata, ricca, ha sviluppato anche una non certo inedita ma rinnovata lettura secolare dell’ebraicità. Bisogna aprirsi al dialogo, certo, ma per prima cosa a un dialogo interno, che forse sta facendo i primi passi in Israele, non ancora nella Diaspora, almeno non nella nostra. Non un dialogo per iniziati, a porte chiuse. Se vogliamo agire come un “popolo di sacerdoti”, facciamolo pure. Ma questo non ha mai significato un popolo di anacoreti.

NOTE SULL'AUTORE 

Amos Luzzatto

Già Presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane.

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