Data pubblicazione:20 febbraio 2007
È frustrante rinnovare il senso di smarrimento rispetto al perpetuarsi del conflitto fra Israele e i palestinesi che attanaglia i due popoli come un immutabile copione in un teatro invecchiato. Nei mesi scorsi da Gaza la Jihad islamica e Hamas con un inutile stillicidio di razzi Qassam colpiscono le città israeliane. L’esercito di Israele reagisce con ripetute azioni di guerra. Più volte, per errore, imperizia o spregio di un’umanità dolente, colpisce abitazioni civili, a Beit Hanun o a Bet Lahyia: famiglie annientate, costrette a un’esistenza di sofferenze. Poi, le parti negoziano una fragile tregua di fatto, infranta da un attentato a Eilat, il primo dall’aprile 2006, rivendicata della Jihad e dalle Brigate Al-Aqsa. Nella guerra insensata scoppiata con l’inizio della seconda intifada sei anni fa, si contano circa 4500 morti fra i palestinesi (la metà a Gaza), oltre 1000 fra gli israeliani.
È manifesto come sia vano per Israele affidarsi alla mera repressione militare del terrorismo senza offrire un negoziato che consenta ai palestinesi di intravedere i benefici tangibili del ripudio della violenza e dell’accettare una coesistenza pacifica con Israele. Non si distingue fra i mandanti e i manovali del terrore e i palestinesi come popolo: questo è trattato come un nemico irriducibile, che non merita fiducia, che deve essere domato con la forza delle armi.
Dall’altra parte, l’illusione delle componenti più oltranziste tra i palestinesi di piegare Israele con la violenza imitando i successi di Hezbollah in Libano dovrebbe essere evidente. Quando si osservi la lunga storia del conflitto fra arabi ed ebrei, è solo allorché la violenza cessa e si prefigura una possibilità di pace che l’umore del popolo di Israele si dispone al compromesso e i moderati vincono politicamente sugli estremisti. Ed è grave che l’Autorità palestinese e, da un anno, il governo di Hamas siano stati incapaci di impedire alle fazioni più radicali di persistere nelle azioni di guerriglia contro Israele.
Il ritiro da Gaza dell’agosto 2005 fu un evento di grande importanza; pur con i suoi limiti, poteva essere il preludio a futuri, necessari ritiri da parti cospicue della Cisgiordania, previsti dal programma del governo Olmert scaturito dalle elezioni israeliane del marzo scorso. Gaza era un embrione di stato palestinese, sebbene necessitasse per diventarlo degnamente, di un legame fisico e politico con la Cisgiordania, di luoghi di transito aperti, di un confine davvero sovrano con l’Egitto. Il “disimpegno” era stato attuato dal governo Sharon in modo unilaterale, mentre avrebbe dovuto essere negoziato con i palestinesi e con l’Egitto, non solo per i dispositivi di sicurezza. Così esso ha fornito a Hamas l’alibi per esaltare il ritiro come una sconfitta per Israele, costretta all’abbandono dalla forza della “resistenza”. È stato un ritiro limitato perché non ha conferito all’Autorità palestinese a Gaza il controllo del mare, né dello spazio aereo. Ma poteva costituire, nel frattempo, un avvio di progresso civile ed economico, di institution-building, per quella terra diseredata.
Così non è stato. I palestinesi ne portano certamente qualche responsabilità. Essi dovevano cogliere quell’occasione offerta dalla fine dell’occupazione a Gaza; dovevano impedire alle formazioni più oltranziste di continuare una guerriglia sciagurata e inutile contro Israele; dovevano puntare a un governo di unità nazionale che accettasse ai fini di una trattativa di pace il piano della Lega araba del 2002.
Il “rifiuto di Israele” resta, nell’assolutismo ideologico di Hamas, un elemento paralizzante, nonostante alcune, ambivalenti, dichiarazioni di Meshal da Damasco: il rifiuto di abbandonare la violenza e di negoziare con Israele.
Per il resto, quanto alla mancanza di iniziativa politica del governo Olmert-Peretz riguardo sia ai palestinesi che alla Siria, un governo certamente indebolito dall’insuccesso nella guerra contro Hezbollah, dai pessimi sondaggi di opinione e dal groviglio di vicende affaristico-giudiziarie che investono la classe politica del paese, concordo in larga parte con la diagnosi di Janiki Cingoli. Quindi mi rifaccio alla sua analisi, nonché all’esortazione giusta a un impegno della comunità delle nazioni per favorire la ripresa del negoziato tra le parti.
Queste sono, nel complesso, le posizioni mie e del Gruppo Martin Buber – Ebrei per la pace (www.martinbubergroup.org), che ho contribuito a fondare ormai quasi 20 anni fa. Proprio per questo siamo rimasti stupiti per alcune considerazioni che il Ministro degli Esteri D’Alema ha sviluppato in una sua intervista (L’Unità, 10 novembre 2006), che non tiene conto dell’articolazione delle posizioni fra gli ebrei italiani e rischia di influenzare un’opinione pubblica già pregiudizialmente ostile a Israele e propensa a considerare gli ebrei come un tutt’uno monolitico, sempre allineato nel sostegno ai governi di Israele. Ma gli ebrei italiani sono cittadini che come tali si esprimono nei partiti, nella società civile, nel dibattito culturale; una parte cospicua di essi ha militato da sempre nei partiti di sinistra; la stessa sinistra italiana – e mondiale – è fortemente intrecciata nelle sue radici e nella sua storia con quella del mondo ebraico. Questo è un punto per me molto importante, che concerne il rapporto tra Israele ed ebrei della Diaspora e fra sinistra e mondo ebraico.
Più in generale, questa polemica mi sembra inutile e controproducente, tanto più che sulla sostanza della politica estera del Governo italiano in Medio Oriente – al di là di alcune asprezze verbali a volte eccessive – non c’è un sostanziale dissenso.
Concludo. Gli ebrei italiani nutrono per Israele un forte legame affettivo. Ma essi non sono cittadini-elettori di quel paese. Ci accomuna la volontà di difendere il diritto irrinunciabile di Israele a una esistenza pacifica e sicura, ancora oggi messo in forse a quasi 60 anni dalla nascita dello Stato dal persistere del rifiuto “arabo-islamico” e dalla minaccia nucleare iraniana. Ma ci interroghiamo con angoscia e spesso aspramente ci dividiamo circa le azioni dei suoi governi. Questa pluralità di opinioni è un valore e una prassi che difendiamo con forza.
NOTE SULL'AUTORE
Giorgio Gomel
Economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno ad una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. Il tema dei rapporti politico-economici fra l'Europa e Israele è stato ampiamente trattato in “Europe and Israel: a complex relationship”
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