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L’Analisi

C’è bisogno di dialogo. Soprattutto sociale

di Mario Scialoja

Data pubblicazione:9 gennaio 2007

Gli interventi prodotti al convegno internazionale “Islam in Europa. Islam europeo”, organizzato dal CIPMO nel giugno 2005, hanno fornito ad alcuni relatori lo spunto per elaborare un decalogo, ossia una serie di riflessioni/suggerimenti sul tema dell’Islam, rivolti non solamente agli immigrati ma anche alle autorità italiane. Suggerimenti che aiutino a dar vita ad un dialogo più proficuo e ad un processo di integrazione nella società italiana che vada a beneficio di tutti, nella convinzione che la diversità dovrebbe costituire un motivo di arricchimento e non di divisioni e discordia.
Il decalogo prende in considerazione anche il problema della scuola. La scuola italiana è frequentata da un numero crescente di figli di immigrati, musulmani, cristiani non cattolici, piccole comunità di induisti, buddisti e così via. Fino ad oggi la nostra scuola pubblica in termini di programmi scolastici è stata, come era naturale, eurocentrica ed italocentrica. È chiaro però che in presenza di un numero considerevole e rapidamente crescente di studenti di etnie e provenienze diverse i programmi dovrebbero abbracciare un orizzonte più vasto per divenire più attraenti, interessanti, e coinvolgenti per tutti questi alunni che nella stragrande maggioranza diventeranno cittadini italiani e che formeranno parte integrante della nostra società.
L’esigenza fondamentale espressa nel decalogo è, torno a dire, quella del dialogo. Non solo del dialogo interreligioso, ma di quello comunitario tra le vari componenti della società. Il dialogo interreligioso è certamente assai utile, purché non si concentri su temi teologici ma analizzi i problemi globali che l’umanità odierna si trova a confrontare e sui quali tutte le religioni, in particolare le tre religioni di derivazione abramitica, hanno posizioni spesso identiche e quasi sempre molto simili e confrontabili: cioè la tutela della vita, della famiglia quale nucleo primario della società, la difesa dell’ambiente, la moralità, la lotta contro il crimine e così via. Ma ancor più importante del dialogo interreligioso è quello sociale. In questo senso, proprio per l’attenzione a questi temi, il decalogo riveste una grande importanza. E’ da tempo che propongo al Ministero dell’Interno un documento simile da consegnare agli immigranti al loro arrivo. Un opuscolo in varie lingue, un vademecum che spieghi ai nuovi arrivati quali sono le regole della nostra società, quali grandi opportunità offre loro la civiltà occidentale, la civiltà italiana, le nostre tradizioni, le libertà di cui possono godere da noi. Tutte quelle informazioni, insomma, che possano guidarli sulla via dell’integrazione. Mi è stato sempre risposto che si tratta di un’iniziativa degna di attenzione, ma per ora nulla è stato fatto al riguardo. Ritengo che si tratti di una mancanza grave. In Italia arriva un numero crescente di immigranti, sia quelli con un permesso regolare di soggiorno, sia quelli che fuggono da povertà, fame e disperazione ed entrano come clandestini, immigranti clandestini, che non conoscono nulla del nostro Paese e di quello che li aspetta nella ricerca di mezzi di sussistenza e di un futuro migliore.
Quando si parla di integrazione tra comunità, culture ed etnie, o di convivenza tra religioni diverse in un Paese d’immigrazione, si fa quasi sempre riferimento al modello assimilazionista americano, il cosiddetto “melting pot”, la fornace dove tutto verrebbe fuso ed amalgamato. La storia, come ricorderò tra poco, ci ha purtroppo insegnato che si trattava di un’utopia. Un fallimento totale o parziale si sono rivelati anche alcuni esperimenti non di assimilazione ma di integrazione, fondati sul mantenimento dei valori e delle tradizioni di origine in una corinice di rispetto delle leggi dello stato ospite. Ad esempio, il modello francese è in grosse difficoltà, abbiamo visto quanto è successo recentemente nelle periferie delle città francesi e sappiamo che quei gravissimi disordini non avevano una motivazione religiosa. Di questo va preso atto: anche Giuliano Ferrara, che non è sempre molto benevolo nei confronti dell’Islam, ha riconosciuto, nella trasmissione che conduce sulla Sette, che l’Islam aveva ben poco a che fare con quanto è accaduto in Francia. Abbiamo assistito poi ai tragici eventi in Olanda ed a problemi sorti in altri Paesi. Siamo costretti quindi a concludere che fino ad oggi non è stato reperito un modello ideale per edificare una società multietnica e multireligiosa.
Tornando al “melting pot” americano è opportuno ricordare che negli USA le minoranze di origine europea, prima gli irlandesi poi gli italiani, pur provenendo dalla stessa cultura e religione (sia pure cattolica e non protestante), hanno dovuto subire un lungo calvario prima di potersi ritenere riconosciute a parità di diritti dalla società americana. Anche nella patria del “melting pot”, nonostante la tradizionale apertura verso gli emigranti, si è ancora lontani dall’arrivare a una vera e completa integrazione tra le varie componenti di quella complessa società, soprattutto della componente afro-americana e delle altre minoranze etniche. Perche? A questo punto introduco un tema che mi rende di norma impopolare. Qual è il vero e difficile ostacolo da superare? Non credo sia principalmente la differenza religiosa (in Italia vivono migliaia di professionisti musulmani, medici, dottori, avvocati, ingegneri, che non hanno nessuna difficoltà ad avere rapporti di amicizia con gli italiani e sono perfettamente integrati) ma piuttosto il problema della “razza”, del colore della pelle. Uno studioso americano (Jeffrey N. Wasserstrom) ha detto in un suo scritto che il colore della pelle non dovrebbe avere più importanza del colore degli occhi. Questa affermazione dal punto di vista ideale è perfetta, peccato che sia contraddetta dalla realtà. Nel nostro DNA è radicata la paura di tutto ciò che non conosciamo. All’epoca delle caverne l’uomo per difendersi di notte dalle belve metteva qualche pietra davanti alla caverna; poi ha costruito case sulle palafitte, quindi villaggi circondati da palizzate, città con mura fortificate, infine frontiere strettamente sorvegliate. Oggi tutto questo non è più possibile. Popolazioni intere si spostano da una parte all’altra del globo. Anche i viaggi ormai, anche se sempre costosi, sono praticamente alla portata di tutti. Ciò che dovremmo quindi fare quindi è eliminare dal nostro DNA il gene che ci porta ad avere una paura istintiva nei confronti dell’alieno. Tale gene è ancora presente nella generazione contemporanea, nel mondo in cui viviamo, nel mondo in cui vivranno i nostri figli futuri. Purtroppo non sarà un intervento di ingegneria genetica ad aiutarci, né cure mediche, ma solo l’evoluzione della nostra cultura, che deve farci comprendere che siamo tutti membri di una stessa umanità. D’altra parte, la varietà del genere umano fa parte del Disegno Divino, per lo meno per noi musulmani: c’è un versetto del Corano, molto famoso (Sura 49:13), che recita “vi abbiamo creato da un’unica coppia di un maschio e di una femmina e abbiamo fatto di voi tribù e nazioni affinché voi possiate conoscervi”. Vale a dire, aggiunge tra parentesi un noto traduttore del testo sacro, “non affinché possiate odiarvi”. Il versetto prosegue così: “il più onorato di voi agli occhi di Dio è il più giusto tra voi”. Questo concetto purtroppo non è semplice da mettere in pratica. Ancora oggi, negli Stati Uniti, vediamo le discriminazioni cui sono soggetti gli afroamericani. Il reverendo Jesse Louis Jackson dopo la tragedia dell’uragano Katrina disse candidamente che se gli abitanti di New Orleans non fossero stati tutti neri e poveri gli aiuti federali sarebbero stati più tempestivi ed adeguati a fronteggiare la tragedia. Non so se questa affermazione, indubbiamente cinica, corrisponda pienamente alla verità  ma certamente costituisce una conferma del fatto che anche negli Usa, anche nella “fornace che tutto brucia”, quando ci si trova di fronte a differenze etniche il problema dell’integrazione si fa molto più complicato. Non dico che la situazione sia senza speranza, ma certamente sarà necessario un grande impegno e molto tempo per superare questi ostacoli. Io tendo ad essere ottimista per il futuro, ma credo che sforzi seri e determinati siano richiesti da parte di tutti, non soltanto da coloro che giungono nel nostro paese e che devono accettare le regole della nostra società. Va avviato un dialogo religioso e civile a tutti i livelli, e questo concetto viene giustamente ribadito più volte nel decalogo di cui parliamo oggi. Grazie.

NOTE SULL'AUTORE 

Mario Scialoja

Mario Scialoja era un diplomatico italiano. Il suo ultimo incarico è stato ambasciatore in Arabia Saudita dal 1994 al 1996. Dopo essersi ritirato, ha deciso di passare i suoi ultimi anni al servizio della comunità musulmana d'Italia. Nel 1998, Scialoja promosse l'apertura a Roma di un ramo della Muslim World League, una ONG saudita con sede centrale a Mecca. Ha ricoperto la carica di Vice Presidente e Direttore Generale dal 1998 al 2006 e, dopo le dimissioni, è rimasto membro del Comitato Costitutivo del gruppo. Successivamente, è stato membro della Commissione consultiva per l'Islam italiano nel Ministero dell'interno e Consigliere di amministrazione del Centro culturale islamico d'Italia, l'unica istituzione islamica ufficialmente riconosciuta in Italia da un decreto del Presidente della Repubblica.

 

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