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L’Analisi

L’alternativa ad Annapolis è il nulla

di Ugo Tramballi

Data pubblicazione: 13 dicembre 2007

Il problema di Annapolis non è capire se la conferenza sia stata bene organizzata; se i cuori e le menti di chi vi ha partecipato fossero sinceri; se produrrà quella formula miracolosa che deve portare alla fine del più ostinato dei conflitti e alla pace. Il problema di Annapolis è che non esisteva alcuna alternativa ad Annapolis.

C’è chi dice che Ehud Olmert e Abu Mazen siano leaders deboli per muovere un passo nella trattativa, oltre la conferenza di fine novembre sulla baia di Chesapeake. Chi sostiene che dopo aver speso i primi sette anni di amministrazione combattendo in Afghanistan, invadendo l’Irak e minacciando l’Iran, nell’ultimo prima di lasciare la presidenza George Bush non possa essere un «Mr. Palestine» credibile. E c’è chi afferma che nessuna pace sia possibile ignorando Hamas, e nessuna Palestina possa nascere senza la striscia di Gaza.

Di obiezioni che ne sarebbero almeno un altro centinaio: queste erano solo le più gettonate. E ognuna è assolutamente vera o possiede almeno un fondo di verità. Tutto lascia credere che la scadenza del dicembre 2008 per arrivare alla pace non sarà rispettata; e molto fa temere che alla fine possa non esserci alcuna scadenza perché non ci sarà pace. Ma se si stesse ad aspettare l’arrivo di un leader forte a Gerusalemme e Ramallah; se si rinviasse tutto al prossimo presidente, gennaio 2009 più il tempo necessario perché la nuova amministrazione a Washington definisca una politica estera e ne prenda dimestichezza; se si desse altro tempo perché Hamas risolva una volta per tutte il suo delirio islamico-ideologico. Se si aspettasse tutto questo, la pace non arriverebbe mai.

Questo elenco di “se” dimostra che Annapolis era necessaria perché la sua alternativa era il nulla. E’ sempre possibile che anche la conferenza alla fine non produca che il nulla. Tuttavia occorreva provarci perché disperati non sono solo israeliani e palestinesi ma anche tutti gli altri: americani, europei, arabi, russi.

A ben guardare la vecchia «Questione Palestinese« è sempre più irrilevante. E’ ovvio: resta decisivo darvi una risposta. Ma in modo sempre più crescente, le instabilità del Medio Oriente sono altre: le ambizioni dell’Iran che nessuno conosce; la polveriera irakena che non è ancora stata disinnescata;  gli eserciti informali e incontrollabili di Hamas ed Hezbollah e il radicalismo religioso che sottintendono; il barile di petrolio a 100 dollari sul quale il mondo arabo gioca lo sviluppo o la depressione economica della sua prossima generazione. Anche la futura stabilità dell’Egitto che si avvicina a una pericolosa successione dinastica da Hosni a Gamal Mubarak, preoccupa più del destino dei palestinesi.

La «dichiarazione congiunta» di Annapolis letta da Bush anche per conto di Olmert e Abu Mazen, in piedi accanto a lui, era francamente debole. Ad eccezione di una data d’inizio del negoziato e una ipotetica di fine, non c’era alcuna garanzia riguardo a quale pace, quale Stato, quali confini e quale diritto al ritorno dei profughi i palestinesi avrebbero avuto.  Solo tre giorni prima di Annapolis nessuno avrebbe creduto che sauditi e siriani si sarebbero scomodati per così poco.

Invece c’erano perché quelle priorità e quei pericoli regionali erano per loro ormai più determinanti di uno Stato palestinese. La Siria voleva le alture del Golan dagli israeliani e gli investimenti dagli arabi del Golfo: la bonanza petrolifera, un surplus da oltre 500 miliardi di dollari, serve a finanziare le riforme economiche siriane e a sostenere il regime più dell’indipendenza dei palestinesi. Tutto il “vecchio” Medio Oriente, quello dei conflitti a Nord della frontiera fra Kuwait e Irak, ha bisogno di quegli investimenti. L’Egitto, la Giordania, il Libano, oltre a siriani, irakeni e palestinesi, devono dare un’educazione e un lavoro a una generazione intera di arabi che al di sotto dei 30 anni già rappresenta i due terzi della popolazione. Se questo non avverrà, con o senza la Palestina, tutti i regimi, le repubbliche i regni e gli emirati rischieranno di essere spazzati via da una rivoluzione sociale globale. Più o meno simile al nasserismo degli anni Sessanta: ma questa volta più pericoloso perché guidato dalla certezza che la soluzione sia solo Dio.

NOTE SULL'AUTORE 

Ugo Tramballi

Inviato speciale de Il Sole 24 Ore e responsabile del blog http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/ 

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