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L’Analisi

Il Labirinto della pace

di Antonio Ferrari

Data pubblicazione:1 marzo 2006

Nessuno sa se, e come, Hamas riuscirà a formare un governo che possa davvero funzionare. Incontri e colloqui, che si intrecciano in Palestina, in Israele, in Siria, in Iran, in Turchia e altrove, hanno prodotto finora fiumi di parole, migliaia di pagine, un nugolo di ipotesi, ma nessun passo concreto. Perché l’ostacolo di fondo sembra insormontabile. I Paesi donatori (Usa, Ue), senza i quali l’Anp non può sopravvivere, chiedono ad Hamas di rinunciare alla violenza e di riconoscere Israele; come lo chiedono l’Egitto, la Giordania e altri Stati arabi moderati. Lo stesso presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) lo ha domandato – indirettamente – durante la cerimonia di inaugurazione della nuova Assemblea, nata dopo il terremoto elettorale del 25 marzo. Ha detto che Hamas deve accettare tutti gli accordi firmati dall’Anp.

Ora, tutti gli accordi sono stati firmati con Israele, quindi, accettandoli, Hamas riconosce di fatto il partner che il suo statuto ha l’obiettivo di distruggere. Non è azzardato ritenere che nulla accadrà almeno fino alla fine di marzo, dopo le elezioni israeliane, e dopo che i risultati avranno disegnato una maggioranza di governo, guidata presumibilmente da Kadima (il nuovo partito centrista creato da Ariel Sharon prima del fatale ictus che lo ha stroncato), e allargato ad un ventaglio di possibili alleati. La scelta della coalizione offrirà le prime risposte anche sul futuro rapporto con la nuova leadership palestinese. Fino a quel momento, poco (salvo sorprese sempre possibili) si muoverà.

L’Anp sembra paralizzata per almeno tre ragioni: 1) perchè Fatah, il partito sconfitto alle elezioni, non ha intenzione di lasciarsi coinvolgere in un governo di unità nazionale, come chiede il neo-primo ministro di Hamas Ismail Hanijeh; 2) perché la scelta di un capo del governo indipendente è fallita: tutti i possibili candidati, a cominciare dall’ex ministro dell’economia Salam Fayyed, ponevano infatti condizioni non diverse da quelle di Israele e della Comunità internazionale; 3) perché Hamas, nonostante il trionfo elettorale, sa bene che la sua maggioranza assoluta è dovuta a una valanga di voti in prestito: consensi non ideologici né religiosi, ma dovuti essenzialmente alla forza d’urto di una protesta popolare contro la corruzione, l’impotenza e l’insipienza di gran parte della dirigenza palestinese clamorosamente sconfitta. La vittoria di Hamas somiglia, fatte le debite proporzioni, a quella del partito islamico moderato turco della Giustizia e dello Sviluppo, che vinse le elezioni grazie ad una maggioranza assai più ampia della sua base.

Una maggioranza che comprendeva vasti settori laici dell’elettorato, che al partito di Recep Erdogan chiedevano soltanto una cosa: stabilità politica. Erdogan poteva garantirla, Hamas no. E’ pur vero che Hamas potrebbe, magari per gradi, accettare di riconoscere Israele. Ma se lo facesse, perderebbe il consenso dei suoi sostenitori storici, con il rischio di una spaccatura, e quindi una scissione tra radicali e moderati. Scissione che il movimento estremista, ora, non vuole neppure prendere in considerazione. Il quadro che si presenta è insomma inquietante, e gli analisti continuano a domandarsi quali siano state le ragioni di un voto viscerale e scriteriato, che crea gigantesche difficoltà all’Anp. Di sicuro, il trionfo di Hamas è stato favorito dagli ostacoli creati da Israele a Mahmoud Abbas, che non è mai stato considerato (nonostante le promesse, di segno opposto, agli Usa e all’Ue) un partner credibile. Tuttavia, va detto che anche nel caso Israele fosse stato ben più generoso, la situazione sarabbe cambiata di poco. Il problema della corruzione sfrenata, che ha raggiunto anche personaggi di primo piano dell’ultimo governo di Fatah, aveva infatti creato un malcontento e una rabbia che alla fine ha prodotto il desiderio di consumare una vendetta politica, ignorandone le conseguenze.

Sono in tanti a sostenere che, viste le insuperabili difficoltà che si stanno prospettando, non si possono escludere, a breve, una grave crisi politica, lo scioglimento dell’Assemblea e nuove elezioni. Con la (quasi) certezza che, se venissero convocate, il risultato sarebbe assai diverso di quello del 25 gennaio. La paralisi, insomma, ha l’aria d’essere assai più dannosa della corruzione che soltanto adesso, lentamente, Fatah sta cercando di contenere. Vien da sorridere pensando ad un paradosso. Soltanto qualche anno fa, fu creata la figura del primo ministro palestinese su suggerimento di Israele e degli Usa, proprio per condizionare e limitare i poteri del presidente del’Anp, che allora era Yasser Arafat. E la prima scelta cadde su Mahmoud Abbas. Ora accade
il contrario. Tutti, a cominciare dagli Stati Uniti, chiedono al presidente (che è Mahmoud Abbas) di sottrarre tutti i poteri possibili al primo ministro. Incredibile. O no?

NOTE SULL'AUTORE 

Antonio Ferrari

Giornalista e scrittore, nato a Modena nel 1946. Ha cominciato come cronista al «Secolo XIX» di Genova, e dal 1973 è al «Corriere della Sera»: inviato speciale ed editorialista. Dopo aver seguito gli anni del terrorismo italiano, con le trame nere e rosse, è passato all'estero. Prima in Europa e nei Paesi dell'Est comunista, per approdare nei Balcani, nel Medio Oriente e in Nord Africa. Ha seguito quasi tutte le crisi di queste regioni, le guerre, i tentativi di pacificarle. Ha intervistato, nel corso degli anni, quasi tutti i leader di un'area estesa ed estremamente variegata. È membro del Comitato scientifico del CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) e di Gariwo (La foresta dei Giusti).

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