Data pubblicazione:15 settembre 2006
Il macigno dell’Iran estremista, rappresentata dal suo presidente, dai suoi referenti nel clero sciita e dalla questione nucleare, pesa sulla situazione mediorientale e può essere d’ostacolo, pratico o psicologico, all’ipotesi della ripresa dei negoziati di pace tra Israele e i suoi “nemici”, Siria e Palestina. Ma, paradossalmente, quello stesso macigno potrebbe indurre, quasi costringere, le tre parti direttamente in causa, a ritentare la via della trattativa. La guerra in Libano ha prodotto un insieme di profondi cambiamenti nello scacchiere e, in Israele, sono emerse considerazioni, in parte trascurate sulla scia degli eventi ma non per questo poco importanti, che potrebbero determinare scelte politiche nuove.
Della crisi di credibilità del premier Olmert e del suo governo si continua a parlare come anche della realizzazione da parte delle autorità e ancora più importante da parte della maggioranza della popolazione che le forze armate non possono essere l’unica soluzione dei problemi esistenziali del paese. Abbiamo sentito il ministro della difesa, il laburista Peretz parlare di necessità di dialogo con la Siria e il suo collega Avi Dichter, ex capo dei servizi segreti ora ministro per la sicurezza, ammettere pubblicamente l’ovvio, ossia che la restituzione delle alture del Golan potrebbe essere il presto giusto per la vera pace tra i due paesi. Abbiamo anche sentito Shimon Peres sostenere che si dovrebbe trovare il modo di negoziare con i palestinesi ma di accantonare la questione della Siria perché, ha sostenuto, Israele non è in grado di affrontare due trattative parallele.
Nei primi giorni del conflitto in Libano, alcune voci e non soltanto a sinistra si erano levate per chiedersi se gli Stati uniti, nel difendere il massiccio attacco israeliano come risposta all’incursione di Hezbollah, stavano facendo il gioco, o meglio difendevano gli interessi d’Israele o se era il governo Olmert a fare il gioco di Bush jr. E se gli interessi veri, strategici, dei due paesi amici per la pelle, fossero veramente gli stessi. Lo Stato d’Israele, rilevava più di un analista non soltanto israeliano, esiste in Medio Oriente e deve imparare a convivere con i suoi vicini di casa. Gli Stati Uniti sono geograficamente molto lontani dalla regione che vorrebbero gestire. Non saranno mai colpiti dalla Siria e nemmeno dalla più potente Iran. Mentre Israele sarebbe costretto a sopportare il peso delle eventuali azioni militari contro Teheran ordinate da un’amministrazione americana palesemente fallimentare in politica estera.
Israele ha giustamente paura dell’Iran in mano all’ala estremista degli ayatollah, ma, si chiedono in molti anche in Israele, la politica di Bush jr. visto i risultati conseguiti in Afghanistan e in Iraq e la crescita parallela dell’odio dei musulmani tutti nei confronti dell’Occidente, può garantire la sopravvivenza e l’incolumità d’Israele? Non è forse necessario, come rilevano alcuni leader europei, un approccio diverso? E non è possibile, anche se significherebbe per Bush un cambiamento drammatico di rotta, che dopo le elezioni di mezzo termine a novembre, l’amministrazione americana decida di lanciare o quanto meno assecondare un’iniziativa di pace in Medio Oriente se non altro per cercare di isolare l’Iran? Visti i precedenti, non ci sono certo motivi d’ottimismo. Eppure vi sono, nella realtà complessa della regione, tutti i presupposti per un negoziato vero che risolvi insieme, parallelamente, la questione palestinese, quella siriana e, in fine, quel poco che resta del contenzioso con il Libano. Troppe volte, in passato, abbiamo assistito ai tentativi, abortiti per colpa degli uni o degli altri, di risolvere separatamente gli aspetti diversi del conflitto arabo-israeliano. Ora la Lega araba ha proposto una conferenza di pace sotto l’egida dell’Onu e ha ricordato, rilanciato, il piano ideato dal sovrano saudita nel 2001 per offrire a Israele pace, sicurezza e rapporti diplomatici da parte di tutti i paesi arabi in cambio del rispetto delle risoluzioni dell’Onu, fatto salvo la possibilità per le parti direttamente coinvolte di definire insieme eventuali aggiustamenti.
L’Europa, consapevole di poter avere un ruolo importante nella regione, sta mostrando una nuova volontà di farsi coinvolgere in Medio Oriente per facilitare un processo diplomatico e per offrire le necessarie garanzie militari ed economiche indispensabili a consolidare accordi come quello raggiunto all’Onu per il Libano. E, ancora più importante, va rilevato che questi terribili anni di conflitto, di terrorismo, dagli accordi d’Oslo a oggi, hanno abbattuto in Israele, e anche nel mondo arabo, i vecchi tabù. La stragrande maggioranza degli israeliani ha mostrato nei fatti di accettare il dialogo con i palestinesi (l’abbiamo visto con Arafat), di accettare a suo fianco la creazione di uno Stato palestinese indipendente (lo diceva persino Sharon), di non opporsi al ritiro da territori occupati nel 1967 (l’abbiamo visto a Gaza, un anno fa), e di prendere in considerazione l’idea di dividere, in qualche modo, anche Gerusalemme, e le alture del Golan stavano per cambiare mano già quando era premier Ehud Barak (si era tirato indietro all’ultimo per paura di affrontare l’opinione pubblica). Israele, ammettono dal canto loro tutti gli arabi ad esclusione degli estremisti, esiste e ha il diritto di esistere.
Le modalità, i piani per attuare tutti questi passaggi, sono stati studiati a fondo. Molti erano stati già approvati, nel corso dei negoziati di Camp David e Taba e tra Israele e Siria, prima di essere stati accantonati. Si tratterebbe, oggi, soltanto di aggiustarli e sottoscriverli. “Basterebbero sei mesi”, mi ha detto giorni fa a Gerusalemme il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat. L’unica cosa che manca, e purtroppo è l’elemento principale, è uno statista israeliano o/e un presidente americano capace di imporre e garantire quella pace che, per quanto possa apparire strano, è, mai come prima, a portata di mano.
NOTE SULL'AUTORE
Giornalista, inviato speciale, esperto di questioni africane e mediorientali, è corrispondente de Il Messaggero. Con il Saggiatore ha pubblicato Uccideteli tutti! (2008), Mossad base Italia (2010), Rossi a Manhattan (2013) e a marzo 2016, Intrigo.
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