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L’Analisi

Anp, uno spiraglio incerto

di Antonio Ferrari

Data pubblicazione:15 settembre 2006

Non è il caso di esultare, e neppure di abbandonarsi ad una delle periodiche ondate di ottimismo che inebriano (per qualche tempo) tutti coloro che sperano di vedere la fine del conflitto israeliano-palestinese. Siamo ancora lontanissimi da una possibile soluzione, ma qualche spiraglio di speranza si è riaperto proprio in questi giorni con l’annuncio che il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), laico che appartiene al Fatah, e il primo ministro Ismail Haniye, scelto dal movimento fondamentalista Hamas per guidare l’esecutivo dopo il trionfo elettorale hanno raggiunto un accordo per formare un governo di coalizione. Il precedente esecutivo, monocolore di Hamas, finora non ha infatti potuto eseguire nulla, perchè è rimasto prigioniero della propria rigidità, rifiutandosi non soltanto di riconoscere Israele ma di sottoscrivere tutti i patti firmati dall’Anp appunto con lo Stato ebraico. Posizione che ha creato attorno ad Hamas il vuoto: cancellazione degli aiuti internazionali, embargo, crescenti sofferenze per popolo palestinese, scioperi generalizzati, chiusura delle scuole, mancanza di lavoro, di cibo, di energia elettrica. A Gaza si rischia davvero una catastrofe umanitaria.
L’accordo raggiunto lunedì 11 settembre (quanto simbolismo in questa data) non è certo figlio della concordia e della condivisione di valori, ma della paura e di una paralisi angosciante. Una paura che prima ha convinto i prigionieri palestinesi, a cominciare dal celebre Marwan Bargouti, a proporre la piattaforma della cosiddetta “riconciliazione nazionale”, basata di fatto sulla volontà di tornare a quell’equazione “terra in cambio di pace”, nella quale s’innervano tutti i passi che finora sono stati compiuti.  Ma anche la paura che ha spinto le parti in conflitto nel cosmo palestinese ad accantonare, tatticamente, quel che le divide (cioé quasi tutto) e cercare di coltivare i pochi punti di convergenza. Ma già il fatto che Hamas, abbandonati i proclami roboanti, punti ad un accordo governativo è già un passo avanti. Che dimostra la crescente tensione fra la componente dialogante (che potremmo definire migliorista) di Hamas, che ha nel primo ministro Haniye una delle sue principali espressioni, e i falchi del movimento, come l’esule a Damasco Khaled Meshal, che puntano al tanto peggio tanto meglio. Abu Mazen, da politico consumato, ha lavorato a lungo per accentuare il divario, convincendo Haniye che il continuo irrigidimento avrebbe provocato un disastro. L’intesa, di cui bisognerà studiare e comprendere bene i dettagli, prevede un consistente ricambio dell’esecutivo, del quale però Haniye conserverà probabilmente la guida. Ammettere, anche da parte di Hamas, pur con mille distinguo formali, che bisogna tornare allo spirito del vertice arabo di Beirut, nel 2002, quando tutti i Paesi sottoscrissero il documento che prevedeva la normalizzazione dei rapporti con Israele in cambio del ritiro da tutti i territori occupati, è il segno che, lentamente, anche il fronte fondamentalista si sta modificando. E forse procede verso quella “istituzionalizzazione” che lo stesso Abu Mazen incoraggiava addirittura prima della sua elezione a presidente dell’Anp.
Se non vi saranno ostacoli insormontabili, dunque, il governo di “unità nazionale” nascerà, e con esso non soltanto vedremo l’immediato immorbidimento del blocco internazionale, ma la possibilità che Abu Mazen, rinfrancato nei suoi poteri, possa se non tornare al tavolo dei negoziati con Israele, almeno al dialogo con il premier israeliano Ehud Olmert. Dopo la guerra estiva contro l’Hezbollah, conclusa con un pareggio militare, con una vittoria d’immagine degli integralisti sciiti libanesi e una crisi profonda che attraversa tutte le istituzioni dello stato ebraico, anche Olmert ha interesse a riaprire le porte al dialogo. Potrebbero essere le debolezze di entrambe le parti a produrre un risultato-magari modesto ma non meno importante-che fino a qualche tempo fa sembrava comunque impossibile. Se Abu Mazen riuscirà a recuperare i suoi poteri presidenziali (che sono assai ampi, anche se negli ultimi tempi erano come svaniti), con il consenso di Hamas, si potrà davvero dire che la fase più acuta della crisi palestinese è passata, e che bisogna cogliere il momento per tornare in cammino. Solo allora si potrà capire se la Road Map potrà sopravvivere a se stessa e rimettersi in moto. Anche perchè, almeno finora, un’alternativa al percorso proposto da Usa, Ue, Onu e Russia non è stata trovata.

NOTE SULL'AUTORE 

Antonio Ferrari

Giornalista e scrittore, nato a Modena nel 1946. Ha cominciato come cronista al «Secolo XIX» di Genova, e dal 1973 è al «Corriere della Sera»: inviato speciale ed editorialista. Dopo aver seguito gli anni del terrorismo italiano, con le trame nere e rosse, è passato all'estero. Prima in Europa e nei Paesi dell'Est comunista, per approdare nei Balcani, nel Medio Oriente e in Nord Africa. Ha seguito quasi tutte le crisi di queste regioni, le guerre, i tentativi di pacificarle. Ha intervistato, nel corso degli anni, quasi tutti i leader di un'area estesa ed estremamente variegata. È membro del Comitato scientifico del CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) e di Gariwo (La foresta dei Giusti).

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