L’Editoriale

Gerusalemme. L’ora dei lupi

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:16 ottobre 2015

Le notizie che da due settimane ci giungono da Israele, ed in particolare da Gerusalemme, non possono che allarmarci, e pongono pesanti interrogativi. Gli attentati dei cosiddetti “lupi solitari” palestinesi, per lo più giovani, sono oramai divenuti quotidiani. Va detto subito che ogni atto terroristico, rivolto contro la popolazione civile, è da condannare senza se e senza ma: come ricordava il vecchio leader comunista Luigi Longo, “le lotte di liberazione nazionale non hanno niente a che spartire con il terrorismo contro i civili”. Ma non si può non interrogarsi sulle cause e sulle caratteristiche che ha oramai assunto questa nuova ondata di attacchi individuali di palestinesi, per lo più giovani, che si scagliano contro cittadini ebrei con il coltello o con l’auto, ferendoli o uccidendoli.

La prima causa, credo, è la fine della speranza, la mancanza di un orizzonte positivo, di una soluzione possibile per le aspirazioni nazionali palestinesi. I più anziani sanno cosa significa una rivolta armata, una nuova intifada, quali prezzi essa può comportare. E possono essere più rassegnati ad una vita quotidiana oppressiva, ma infine sopportabile. Ma i più giovani, la generazione del dopo Oslo, che non ha partecipato a tutto l’iter infinito di questo lungo e inconcludente negoziato, ha un’altra visione, un diverso approccio: non vogliono attendere, vogliono agire, qui e ora. Vogliono dimostrare di esistere.

Pesa la solitudine del loro popolo, dopo tante promesse. Quando si vede il Presidente Obama, alla tribuna dell’Assemblea Generale dell’ONU di fine settembre, non dedicare una sola parola al conflitto israelo-palestinese, dopo che per tanti anni il tema era stato al centro dei suoi interventi, il segnale non può essere più chiaro: sono oramai altre le priorità, altri i problemi da affrontare, dalla gestione dell’accordo con l’Iran, alla lotta all’ISIS, all’ambiente. I palestinesi possono attendere.

Si può dire che Hamas soffia sul fuoco, anche se non pare che punti ad innalzare il livello della sfida innescando un nuovo conflitto generalizzato; anche lo Jihad islamico ha ribadito di voler rispettare la tregua stabilita il 28 agosto 2014, al termine dell’ultimo conflitto a Gaza.
Questi giovani possono essere influenzati anche dall’esempio dei “martiri” legati all’ISIS, che in Siria e in Nigeria, ed ora pare in Turchia, non esitano a farsi esplodere pur di diffondere il terrore.
Ma il processo qui è più intimo e complesso, quasi che la fine di quel fallimentare processo diplomatico abbia ricondotto lo scontro alle sue radici più ataviche, al corpo a corpo più sanguinoso, dove le più raffinate tecnologie possono rivelarsi impotenti a dare sicurezza alla popolazione civile, atterrita dal passante arabo che ti si avvicina e che può rivelarsi il tuo giustiziere. Le mamme hanno paura di mandare i bimbi a scuola, spesso li mandano su bus diversi perché in caso di attentato almeno uno si salvi.
I responsabili dei servizi segreti israeliani dicono che questa volta sarà molto più difficile: non si tratta di infiltrare organizzazioni conosciute, di esercitare un controllo su gruppi strutturati e in qualche misura prevedibili: ci si trova di fronte a persone normali, che si sentono spinte a fare qualcosa, a esprimere il loro dolore, il loro malcontento in questo modo orribile.

Anche all’epoca della prima intifada vi era un clima simile, Arafat isolato e deriso nelle riunioni della Lega Araba, Israele chiusa ad ogni negoziato. Io non so dire se quella a cui stiamo assistendo è l’inizio della terza intifada, o se ancora una volta l’azione di controllo e repressione degli apparati israeliani riuscirà a spegnere o almeno a sopire questa fiammata, se l’intervento delle altre potenze arabe, a cominciare dall’Egitto, potrà riuscire in qualche modo a riportare nell’alveo più tradizionale la protesta. Ma, in ogni caso, come, e fino a quando?
La notizia che il Governo israeliano ha deciso come estremo rimedio di sigillare i quartieri arabi di Gerusalemme Est segna una evidente forte contraddizione: cosa resta della affermazione di Gerusalemme capitale unica e indivisibile di Israele, se metà della sua popolazione messa sotto assedio, per cercare di impedirle di nuocere?

Gerusalemme è d’altronde anche al centro delle tre religioni monoteistiche, e concentrare lo scontro dentro la Città santa fa assumere immediatamente al conflitto una forte connotazione religiosa: da parte palestinese ed anche araba: di inconsueta durezza sono state le proteste del Re Abdallah II di Giordania. L’accusa rivolta ad Israele è di voler modificare lo statu quo sulla Spianata delle Moschee: accusa rigorosamente smentita dal Governo israeliano, una smentita tuttavia contraddetta dalle affermazioni ed anche dalle azioni di esponenti ed anche da ministri della destra israeliana, che fanno parte del governo.

Il clima si fa quindi cupo, in un Medio Oriente in cui i focolai di tensione già si moltiplicano, dalla Siria all’Iraq alla stessa Turchia.

Di fronte al disimpegno sempre più marcato degli USA, l’Europa potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo crescente, non solo di assistenza e cooperazione economica, come dice di voler fare la nostra Federica Mogherini. Ma alle enunciazioni stentano ancora a seguire i fatti.
Va tuttavia dato atto a Netanyahu di aver fino ad ora resistito alle pressioni della estrema destra del suo governo, volte a rispondere con un vasto rilancio degli insediamenti, o con il varo di massicce operazioni dell’esercito, quali quelle sperimentate negli anni passati. Questo anche per non compromettere anticipatamente il suo prossimo incontro con Obama, in cui si dovranno discutere le misure militari di compensazione per proteggere Israele dalle possibili ricadute dell’accordo sul nucleare raggiunto con l’Iran.

Quello che è certo, è che l’illusione del leader israeliano, di potersi limitare indefinitamente al management del conflitto israelo-palestinese, con qualche concessione sul lato della vita quotidiana dei palestinesi, continuando a rosicchiare qualche altro pezzetto di terra per gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, garantendo contemporaneamente la sicurezza ai suoi cittadini, mostra tutta la sua precarietà. Quella sicurezza, garantita negli ultimi anni anche dalla cooperazione con i servizi della ANP, si va esaurendo. Si può conquistare un territorio con le baionette, ricordava un tempo Shimon Peres, ma poi è difficile sedercisi sopra.

Analisi pubblicata sull’Huffington Post.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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